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VELOCE COME IL VENTO – La recensione

Veloce come il vento

di Valter Chiappa

(AG.R.F. 10/04/2016)

(riverflash)     “Veloce come il vento” di Matteo Rovere non è un racconto sportivo. È una storia da bar, di quelle che si potrebbero raccontare in qualche paesino del Modenese, davanti a un bicchiere di vino ed un mazzo di carte. Quelle storie dove i protagonisti sono personaggi leggendari, dove le macchine volano e ruggiscono come tigri, dove la verità si mescola alla favola e non si sa quanto sia iperbolica l’una o inventata l’altra.

Matteo Rovere, che dice di aver avuto l’ispirazione ascoltando i racconti di Tonino, un anziano meccanico, ci riporta, riscrivendola liberamente, una di quelle storie: l’incredibile vicenda di Carlo Capone, mitico pilota di rally degli anni ’80, dal talento cristallino e dal carattere indomabile. Vincitore del Campionato europeo rally nel 1984, ribelle a tutti gli ordini di scuderia, nonostante quel trionfo fu licenziato dalla Lancia, precipitando nel tunnel della droga e del disagio psichiatrico.

In “Veloce come il vento” la scena si sposta naturalmente in Emilia, terra di origine del regista romano. La famiglia Di Martino vive di pane e motori: la giovanissima Giulia (Matilda De Angelis), ancora minorenne, è una promettente campionessa, il padre, meccanico, il suo allenatore; dietro una madre che li ha abbandonati ed un fratellino introverso e perennemente serio. E poi il fratello maggiore Loris (Stefano Accorsi), detto “Ballerino”, ex pilota spericolato e dal prodigioso talento. Diventato tossicodipendente dopo la partenza della madre, vive da sbandato in una roulotte assieme alla donna (Roberta Mattei).

Un giorno il padre muore per un infarto che lo coglie, come gli si addice, a bordo pista. L’officina chiude, rimane solo il vecchio e fedele Tonino (Paolo Graziosi). Giulia, solida ed equilibrata, si carica sulle spalle la difficile situazione. Ma deve continuare a correre: il padre si era indebitato per iscriverla al Campionato e se non vincerà dovrà lasciare la casa al crudele avversario Minotti. Un’impresa disperata. Ma quando Loris ritorna a casa per pretendere la sua parte di eredità, viene richiamato da una droga più potente di quella che si inietta nelle vene: il fumo di scarico gli entra nei polmoni, l’olio gli circola nelle vene, il rombo dei cilindri è musica nella sua testa. Comincerà a seguire la sorella, trasmettendogli la sua contagiosa follia e indicandogli quelle imprevedibili traiettorie che solo il suo infallibile occhio sa vedere, le sole linee che sono restate chiare nella sua mente obnubilata.

Vincere un campionato con un team formato da una ragazzina, un tossico ed un vecchio: davvero una storia da bar. Che si muove su un filo sottile, fra l’equilibrio e la follia, la possibile redenzione e la definitiva perdizione, fra una droga, quella chimica, e l’altra, quella di una passione totalizzante.

Film veloce come il suo titolo, sanguigno, eccessivo nelle caratterizzazioni, come forse la storia richiede. La storia ed i personaggi coinvolgono, passandosi la scena: prima domina la tenace determinazione di Giulia, poi irrompe e conquista l’irruenta sregolatezza di Loris. Stefano Accorsi, dimagrito, segnato, con i capelli lunghi e bisunti e la dentatura marcia, è favorito da un ruolo da mattatore destinato ad accattivarsi il pubblico. Ma, a nostro vedere, calca troppo la mano, gigioneggia con l’accento bolognese, riproduce un tossico troppo tossico; per diventare però irresistibile quando finalmente si mette al volante della sua vecchia Peugeot 205 T16. Impressionante per contro l’esordio della giovane Matilda De Angelis, per una presenza scenica che riempie lo schermo e una personalità che si manifesta imponente fin dalle prime scene.

“Veloce come il vento” ha poco a che vedere con “Rush” di Ron Howard e nulla con i vari “Fast and furious”. Non ci sono la fantascientifica tecnologia dei box di Formula Uno, né il mondo dorato delle feste mondane: solo sudore, grasso dei motori, bulloni e chiavi inglesi; nessun occhio elettronico, nessun computer, solo quella voce magica che ti ordina di raddrizzare le curve, montare sui cordoli, anticipare, chiudere, dare gas. E così le scene di corsa non hanno effetti speciali o computer grafica: riprese artigianali, con le camere montate sui cofani delle macchine, ma, come queste, velocissime ed adrenaliniche per quanto vere. Il collegamento più opportuno ci sembra invece, pur nella diversità di genere, con “Lo chiamavano Jeeg Robot” di Gabriele Mainetti. In entrambi i film infatti c’è il tentativo riuscito di rinnovare i film di genere, immergendoli nella cultura italiana e dando loro quindi una veste del tutto nuova e tricolore. E in questa operazione è fondamentale il ruolo dei regionalismi; la Roma delle borgate di Mainetti, così come l’Emilia dei motori di Rovere. Perché la nostra cultura storicamente si manifesta nella parcellizzazione negli infiniti contesti dalle caratteristiche peculiari ed irripetibili (in primis i dialetti), che uniti, compongono la nostra Penisola e l’essere italiani.

Se la passione per i motori, come racconta Rovere, nasce nei vecchi cascinali trasformati in officine, tra chiavi a stella e fusti d’olio; se non beve champagne ma lambrusco; se parla una sola lingua, l’emiliano, così il nostro cinema, uscendo dai morti salotti borghesi, attingendo all’antico, prezioso crogiolo di quella cultura popolare che è la nostra più grande e forse unica ricchezza, potrà essere finalmente innovativo. E orgogliosamente italiano.

Voto: 7

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