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UN DIVANO SUL PACIFICO: MADAM TUTT’UN’ALTRA STORIA (parte 8)

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Di Giulio Ranzanici (AG RF 25.08.2013)

(riverflash) – Lavorai, quel giorno di fine giugno, per il resto del pomeriggio, per tutta la sera e per buona parte della notte. Mille parole non sono un granché, all’incirca tre pagine e mezzo formato A4, in corpo undici, spaziatura normale. Di regola non mi ci voleva tutto quel tempo per riempirle, ma la mia ottantasettesima puntata di Abduction – The astounding story of Lucrox stava prendendo una svolta completamente nuova, una svolta sportiva. Trascorsi diverse ore su Wikipedia a studiare la voce Hockey su ghiaccio, sport di cui ignoravo tutto e di cui cercai di assorbire la storia, l’evoluzione, i campionati. Mi concentrai per impossessarmi delle regole del gioco, dello svolgimento delle azioni, degli ingaggi, dei fuorigioco, dei power-play e dei goal in power-play, dei segreti e dei trucchi. Guardai non so quanti filmati su YouTube, esaminai le posture dei giocatori e ne osservai le divise e gli equipaggiamenti (i pattini, il bastone, il casco con visiera, i guanti, le protezioni, a cui si aggiungevano gli scudi e le maschere grigliate per i portieri).

Quando arrivò il momento di passare alla stesura del racconto erano le undici passate e non avevo ancora cenato. Guardai Guenda stesa sul divano. Al solito non dava segni. Mi avvicinai e le chiesi se avesse fame. Bisbigliò un No, cui seguì un Grazie. Il primo da quando era arrivata a Samui. Sistemai la coperta in modo da coprirle le spalle e di nuovo mi ritrovai a darle un bacio in fronte. Andai in cucina, aprii il frigorifero, e mi passai una mano sulla pancia. Era adiposa da far schifo. Richiusi il frigo, dal tavolo agguantai un biscotto secco e una bottiglia d’acqua e tornai di là.

Le orditure sonore di Mysterious Semblance at the Stand of Nightmares, tenute in loop fino a un minuto prima, avevano abbandonato il soggiorno. Ora gli affondi vasti e incisivi dei sintetizzatori di Phaedra si effondevano dalle cuffie di Guenda tagliando le vibrazioni dell’aria condizionata con sciabolate di scintille elettriche. Da quando Patcharee li aveva liquidati come farang paranoici, i Tangerine Dream li avevo trascurati fino a scordarne l’esistenza. A meno di un miracolo che renda possibile la coincidenza delle rispettive predilezioni, ogni relazione intima ci sottrae inevitabilmente parti di noi stessi, inclinazioni e piaceri nostri, costruiti in una vita, per sostituirli, come un frullato riuscito male, con un gusto comune, un sentire comune, che di comune ha il solo fatto di esserlo nell’accezione di mediocre e dozzinale. Quel che è peggio è che l’intero processo di decadimento avviene a insaputa della coscienza. Anzi, sedotta dall’idea dell’amore, essa ci rimanda una più alta e spirituale considerazione di noi stessi: finalmente amiamo e siamo amati. Così, un mattino di sole apriamo gli occhi e ci ritroviamo lì, tra le braccia della nostra amata, a ascoltare gli Abba al posto dei Tangerine Dream. E mentre tra i reciproci sorrisi canticchiamo Mamma mia ci scopriamo a scambiare la conquista dell’idiozia con quella della felicità.

 Impregnato di quelle fragranze sonore che sentivo di amare come si ama un padre ritrovato, mi ripromisi di non tradirli più, di mai più tradire me stesso. Se I Frattali erano venuti alla luce, oltre che alle predilezioni sessuali di mio figlio, lo dovevo a quel gruppo di musicisti tedeschi, alle loro melodie cosmiche e ieratiche come le note d’organo che pervadono una cattedrale gotica il giorno di Natale, eteree come Sante in ascensione nella cupola del cielo, algide, magiche e fruttate come ciliegie ghiacciate sospese a mezzaria che fluttuando in cerchio attorno a me con l’andante dei clavicembali di Bach mi avevano tenuto immoto, come nel volo statico di un elicottero o di un colibrì, a levitare sopra le acque di quella regione di oceano coscienziale dai cui fondali si degnano a volte di emergere, inaspettate come un arcipelago o una cordigliera sospinte a un tratto in superficie dalle energie telluriche, la morfologia e la struttura narrativa di un romanzo in formazione. Divorai il biscotto che stringevo tra i denti, ingollai una sorsata d’acqua, sedetti al computer e cominciai a scrivere direttamente in inglese. Alle due avevo concluso la prima stesura. La rilessi, feci qualche correzione (sostanziale, agli errori grammaticali e sintattici avrebbe provveduto Bill), e esalai un respiro di soddisfazione. Tanti anni di giornalismo sportivo avevano dato il loro frutto. C’era azione in quel pezzo, c’erano movimento, emozione, vita, passione. La stessa sanguinaria passione che agli inizi della mia carriera mettevo nel raccontare partite di calcio. Da tempo avevo fatto mia l’opinione che tra gli infiniti sport immessi sul mercato per sconfiggere la noia non c’è alcuna differenza. Che si prenda a pugni l’avversario, che lo si superi in macchina, che si calci un pallone o che si diano bastonate a un cervello umano surgelato, l’azione è sempre quella: gli Orazi contro i Curiazi, cambiano i ferri del mestiere, cambiano le armi, ma lo spirito del gioco è lo stesso – identico a quello della guerra. La vera (e simbolica) posta in palio non è la vittoria sul rivale ma il dominio del mondo – o di un suo settore più o meno rilevante.

 L’indomani avrei passato il racconto a Bill: per la prima volta dopo millenni ero curioso di sentire la sua opinione. Mi massaggiai i legamenti delle spalle. Sotto la pressione delle dita li sentivo intorcinati come la capigliatura di un rasta. Poiché Madam non era tornata, carezzai l’idea di andare a buttarmi sul mio letto. Ma poi vidi la scena di lei che entrava in camera e scorgendomi gridava Pirla, pirla, pirla. Spensi la luce e mi sdraiai sulla branda di Bill. Ben presto i traversini che mi premevano la schiena presero le connotazioni dei pali della porta di un campo da hockey, ai quali Gherardo mi aveva legato stretto. Ora con sguardo da Lucrox minacciava di farmi qualcosa – non so cosa perché a quel punto crollai nel sonno.

 Fu un improvviso tramestio all’ingresso a farmi aprire gli occhi. Qualcuno armeggiava con la maniglia. Andai a vedere.

Pirla, pirla, perché hai chiuso a chiave? mi investì Madam. Va be’, non fa niente, aggiunse conciliante, mentre lo sguardo le si faceva lucido, morbido e gommoso come un bastoncino di liquerizia. Ah, il Gherardo, il Gherardo, che uomo fantastico! si infiammò. Che casa, che gusto, che classe, che eleganza! Vedessi la serra, è fantastica! E la biblioteca, piena di tutti quei libri!

Mi stropicciai gli occhi trattenendomi dal chiederle di che altro dovrebbe essere piena una biblioteca. La fiatella alcolica, e non solo, la diceva lunga sulle condizioni di Madam. Barcollava sulla soglia cercando con le dita un appiglio sullo stipite (potevo sentire il grattare delle sue unghie sul tek del piedritto), e parole entusiaste venivano fuori da quella sua vecchia ciabatta accavallandosi come onde di monsone.

Domani mattina ci porta a vedere gli elefanti, farfugliò, e poi mi trasferirò da lui con Guenda. Ah, il Gherardo, che uomo fantastico! Vedessi la piscina, è più grande dell’oceano, questo, intendo… cos’è, l’Indiano?

Pacifico, Madam. Oceano Pacifico, così lo chiamano tutti.

Indiano, Pacifico, cosa cambia? È tutta a sbalzo sulle rocce, è. E c’è anche una cascata, e poi un’isoletta con il bar in mezzo.

Una chiccheria, lo so.

E poi ha due serve brahmane…

Birmane. E non sono serve, sono cameriere, le conosco.

Lui le chiama le mie schiave. Vedessi come sono belle… obbedientissime, zelate.

Zelanti. Le ho detto che le conosco. Conosco anche la casa, la biblioteca, la piscina e tutto il resto. Si chiamano See e Poi.

E poi cosa?

È meglio che vada a letto Madam. Domani deve essere in forma per gli elefanti. Come va il collo?

Bene, non lo vedi che si è raddrizzato quasi del tutto, pirla? Gherardo mi ha massaggiato e mi ha fatto fare anche degli esercizi di allungamento.

Immagino.

Sai che è anche un esperto di tantra yoga?

Non mi dica.

Aveva voglia di parlare, la signora. Quanto mai le avevo chiesto del collo. Vagliai l’ipotesi di darle una botta in testa non appena mi avesse voltato le spalle.

Sai che abbiamo mangiato solo aragosta? Cucinata in tre modi diversi. Bollita, alla griglia, e in salsa thai. Un vinello bianco, austriaco o australiano, non ho capito bene. Da stordire.

Pensa un po’. Se ha ancora fame, è rimasto qualche biscottino sul tavolo della cucina.

Ma come ti viene in mente, pirla!

Dalle cuffie di Guenda mi arrivò L’emozione non ha voce di Celentano.

Io torno a dormire, Madam. Se vuol farsi una doccia, non faccia complimenti, sono certo che saprà essere silenziosa come un serpente. Mi sentivo coraggioso, mi sentivo forte. Uno scrittore si sente sempre forte e coraggioso quando ha appena scritto qualcosa di buono.

Un serpente? Ma come ti permetti, pirla di un cafone che non sei altro. E comunque la doccia non la faccio, l’ho già fatta da…

E si bloccò lì, su quel da, come un motore sbiellato, come un televisore acceso quando all’improvviso manca la corrente.

Poi biascicò Dopo il bagno in piscina, intendo. E mi guardò da sotto in su con gli occhi supplichevoli di chi ti implora di chiudere un occhio, di fingere di credere alle sue menzogne.

Ne approfittai per squadrarla dentro quei suoi fervidi, perfidi occhietti neri. La liquerizia era scomparsa.

Le auguro la buonanotte, Madam.

Lei farfugliò qualcosa, poi varcò la soglia urtandomi deliberatamente una spalla, e facendosi forza per non barcollare si incamminò trionfalmente verso il cesso.

 Il mattino dopo Gherardo apparve sulla soglia gonfio di eccitazione, raggiante come uno Zeus in fregola.

Forza, forza, si va dagli elefanti! squillò. Indossate qualcosa di leggero (farà caldo oggi!) e scarpe robuste. Avete dodici minuti.

Mi tirai su dalla branda e lo squadrai in preda a un serpeggiante impulso omicida, dalle cuffie di Glenda tambureggiò il rullante di Get off of my Cloud (Roling Stones, 1965), e un attimo dopo Madam fece il suo ingresso in scena impacchettata nel lenzuolo matrimoniale come una mummia rediviva, tutta rinsecchita dentro il suo sudario. Pensai a un involtino primavera infarinato. Pensai a un’opera di Christo riuscita male. A un tappeto arrotolato con una testa di Lucrox che spuntava, sopra. Idee affluivano, immagini mi sciabordavano nella testa quel mattino: le immagini incalzanti di quando ero particolarmente creativo. Il che per me significava sentirmi nello stesso tempo felice, furibondo, fecondo, egoista e pervaso da un senso di benevolenza diffuso e indifferenziato. Avrei potuto, in quel momento, abbracciare e strangolare la stessa persona, mosso da un identico sentimento di fratellanza universale. Caino e Abele, forse, erano la stessa persona. Di certo mi abitavano entrambi, quel mattino.

Vaffanculo, Gherardo, dissi squadrandolo a muso duro. Odiavo cavalcare gli elefanti, odiavo il modo in cui erano trattati per la felicità dei turisti.

Gherardo avvizzì, la bocca ripiegata all’ingiù come un paio di baffi a manubrio. Guardò Madam, lei scosse la testa e, inspiegabilmente, senza reagire si rinserrò nel bagno. Mi tirai su dalla branda con la colonna vertebrale frantumata, sezionata in dolorosi stadi, da antenna telescopica svergolata e senziente, pensionata artritica in un misterioso pianeta tecnocratico, popolato di dispositivi elettronici viventi. Ignorando l’avvilimento di Gherardo, andai al computer, lo rianimai dal sonno, rilessi il racconto, lo stampai così com’era, e lo portai a Bill. Bussai alla porta. Dopo un minuto si affacciò la piccola poliomielitica. Il gambino rattrappito era nascosto da un sarong a fiorellini smunti che la fasciava dalle spalle alle caviglie. Mi guardava in silenzio, con aria affranta. Quando le domandai di Bill prese a ripetere I’m sorry, I’m sorry, sorry, sorry.

Che succede? le chiesi in thai.

Sorry, sorry, sorry, insistè lei. Era una minuta creatura da sottobosco siamese, tutta occhi lucidi, labbra umettate, ciglia da cerbiatta stuprata e sesso. Sotto il sarong doveva essere nuda e cruda come una fetta di prosciutto. Con la silente pervicacia di un diffusore di olii essenziali spandeva nell’aria un sentore di sudore maschile, caprino. Scacciai dalla testa le fantasie su quel che Bill si divertiva a farle.

Sorry for what? passai all’inglese. (Il mio apprendimento del thai aveva questo di speciale: che le tre parole nuove che memorizzavo oggi ne cancellavano almeno due di quelle imparate ieri, per cui quando andava bene mi appropriavo di tre parole al mese, salvo poi scordarne altre due il mese successivo – dal punto di vista aritmetico le cose non andavano così, lo so, ma di fatto questo era quel che mi succedeva con gli enigmi fonetici della lingua thai.)

Sorry for what? ripetei pensando al peggio: un infarto, un colpo, una sincope, un ictus, un’emorragia, un suicidio. (I suoi treat psicotici alle galline mostravano chiaramente che qualche increscioso strascico la guerra del Vietnam gliel’aveva lasciato.)

Bill is still sleeping. Yesterday night he said: don’t wake me up for any reason, miagolò la cerbiatta sodomizzata in un inglese che si sarebbe detto perfetto se a parlare fosse stata una gatta in calore.

Tirai un sospiro di sollievo. Il vecchio Bill era ancora vivo e dormiva senza essersi prima suicidato.

Dagli questo quando si sveglia, per favore. Le allungai il racconto.

Yeah yeah, kaa kaa, disse lei modulando le sue sollecite asserzioni nei registri di un orgasmo prolungato ansimato in anglo-thai.

Tornai a casa. Gherardo era sulla veranda tutto concentrato sulla punta arroventata di una sigaretta. Quando mi vide disse con aria contrita:

Perché?

Come tutti i narcisisti che non siano anche sorretti da un’irrazionale e maniacale, immotivata, persistente e universale devozione verso se stessi, Gherardo era in grado di precipitare in stati depressivi profondi e catatonici allorché il suo sistema cognitivo non riusciva a darsi ragione di un insulto o di una critica. Soprattutto, non era in grado di reagire. Un semplice Vaffanculo lo mandava in tilt, lo paralizzava come un veleno vegetale gettandolo in un miserevole stato di choc. Ora se ne stava lì, contrito a contemplare la sua brace, come un bambino che, ferito dall’incomprensibilità della prepotenza di un adulto, si guarda l’ombelico arrossato dal lavorio dei suoi ditini.

Perché? ripeté piagnucolando.

Perché no? gli sorrisi di rimando e entrai in casa.

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