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UN DIVANO SUL PACIFICO: MADAM TUTT’UN’ALTRA STORIA (parte 7)

giulio e l'elefante 

Tornarono o meglio risalirono in casa all’incirca un’ora dopo.

Nel frattempo ero andato e tornato dalla spiaggia due volte per recuperare i cuscini del divano e la branda di Bill.

Ora me ne stavo lì in soggiorno seduto al computer, con Guenda svenuta in poltrona sopra il cumulo dei miei vestiti, che cercavo di buttar giù una partita di hockey tra Lucrox, disputata su Nettuno, con un cervello umano congelato al posto del puck – una partita che avesse un minimo di plausibilità. Facevo ricerche in internet su uno sport di cui non sapevo nulla, se non che c’era di mezzo il ghiaccio. I miei lettori erano degli appassionati di fantascienza, di storie di abduction, rapimenti alieni, non degli idioti cui si poteva propinare qualsiasi stronzata mi venisse in mente. La redazione del Bangkok Post l’aveva rimarcato fin dall’inizio. Il nostro lettore medio non è uno sprovveduto, mi aveva ringhiato Nam Pung, caporedattore della pagina degli intrattenimenti, in una telefonata che aveva seguito la seconda puntata.

La prima era piaciuta tanto da valermi l’assegnazione del lavoro per un periodo di prova, ma si trattava di un brano ultra collaudato, un adattamento dell’incipit de I Frattali del cosmo. Ci avevo lavorato un fine settimana, sgobbando giorno e notte. Ne era venuta fuori l’ambientazione della storia, una puntata di circa mille parole che funzionava, agganciava il lettore e lo tirava fuori per cinque/sette minuti dai tormenti del suo tran tran. Ci avevo sgobbato alacremente, ma non era stato poi così difficile saccheggiare un lavoro già fatto e metterne insieme i brandelli in modo dignitoso. Il problema era che I Frattali non trattava di rapimenti alieni: era la storia di una coppia di astronauti, un texano corpulento e un giapponese piuttosto striminzito, con la navicella in avaria, sperduti su un remoto pianeta della Costellazione del Cane Maggiore, dove una particolare irradiazione elettromagnetica li induceva a rivivere simultaneamente tutti i ricordi della loro vita senza poterli distinguere dalla realtà presente nella quale erano immersi – una sorta di romanzo fanta-psicologico, ambientato prevalentemente nei cervelli deliranti dei protagonisti. Un racconto ulteriormente complicato dal fatto che i due stavano insieme (neanche troppo bene), che avevo scritto di getto in cinque settimane, avventandomi sulla stesura la sera stessa in cui Madam mi aveva telefonato per dirmi di aver sorpreso nella sua camera da letto Augustarello, allora quindicenne, intento a ripassarsi con la lingua certe parti delicate di un suo compagno di scuola. Ammazzalo di botte, quel pirla, aveva berciato nel telefono, spaccagli la faccia, raddrizzalo a cinghiate prima che sia troppo tardi, chi cazzo me li darà degli eredi, eh? Berenice?

Al contrario della prima puntata, la seconda era stata un fiasco. Questa volta non avevo potuto rifarmi ai miei Frattali – depredare e ricucire qualche pagina con il copia incolla e inserire i collegamenti appropriati. Avevo dovuto inventarmi di sana pianta una storia nuova, per giunta in un momento niente affatto propizio per il mio equilibrio. Patcharee era in procinto di lasciarmi. Giorno sì, giorno no minacciava di fare le valige (certi giorni le faceva proprio gettandomi nello sconforto salvo disfarle il giorno dopo riportandomi alle stelle). Una susseguirsi di litigi e rappacificazioni, nuove promesse e vecchie recriminazioni.

Il tedesco era già all’orizzonte, Patcharee se ne guardava bene dal dirlo ma io lo fiutavo, lo intuivo da certe mise che lei indossava prima di andare in negozio. Di buon mattino la vedevo uscire tutta agitata, agghindata e profumata come per un ballo. Restavo lì a stropicciarmi gli occhi nel vuoto del soggiorno; sentivo freddo, indossavo un maglione sopra le mutande e mi mettevo a lavorare. Cercavo di lavorare. La tensione delle pareti mi portava via, mi trascinava a visitare certi siti internet – filmetti di cinque/sei minuti con ragazzine thai che si davano da fare. Le guardavo ipnotizzato pensando a Patcharee. Cosa stava facendo adesso? Con chi? Le piaceva? Mi eccitavo nel dolore, la gelosia mi eccitava. Alle nove e mezza del mattino ero già lì a strapazzarmi l’arnese mentre mentalmente amputavo le teste di quelle ragazzette di vent’anni per trapiantare sui loro corpi di pelle scamosciata il faccino color malto della mia Patcharee. Nello stesso tempo una fetta del mio cervello mi tormentava su cosa scrivere. In quello stato, senza ispirazione, controvoglia, con Word e Firefox simultaneamente aperti dentro la mia testa e sullo schermo del computer, con Patcharee assente eppure orribilmente lì, transvertebrata sul collo di quelle ninfette, mi ero misurato con quella seconda, maledetta puntata. Finì che la buttai giù a qualche maniera, cagando fuori una parolina ogni tre minuti, come uno stitico sul cesso. Finì che tra un anal e un cunnilingus, una gangbang e un pissing fuck, arrivai alle fatidiche mille parole imposte per contratto. Di buono, in quel pezzo, c’era soltanto il nome che avevo scovato per gli alieni. Tutto il resto faceva schifo. Non c’era tensione narrativa, non c’era colore, non c’era vita. I personaggi erano appiattiti. I Lucrox erano i cattivi: cattivi e basta. Il primo dei thai rapiti, Khoon Aroy, era il buono: buono e basta. I Lucrox lo rapivano alla periferia di Bangkok: una cazzo di periferia qualunque e basta. Poi a bordo dell’astronave, una stupida astronave qualunque tutta pinnacoli e lucette lampeggianti, i Lucrox lo torturavano con certi ferri chirurgici. Lui urlava. Loro sghignazzavano. Sarebbe morto? Fine della seconda puntata. Una merda di puntata che quasi mi costò il posto.

Sentii la porta aprirsi. Sollevato di interrompere lo studio dei precetti dell’hockey su ghiaccio, quarto sport nazionale in U.S.A. (dal vangelo secondo Santa Wikipedia), alzai gli occhi dal computer.

Gherardo fu il primo a varcare la soglia.

Siamo stati al Big Buddha, flautò.

Fantastico! squittì Madam affiancandolo dal lato sbagliato.

Delizioso, fece lui.

Carino! disse lei.

Incantevole, la corresse lui in un ringhio soffocato.

Strizzai gli occhi affaticati dallo schermo e li osservai. Erano sudati, scarmigliati, ansavano grottescamente, e nei loro occhi stralunati scorgevo l’espressione di due monelli con la bocca sporca di marmellata. Madam si strofinava certi segnacci rossi che aveva sui polsi. Arturo le odorava le gambe. Gherardo guardava il vuoto con la faccia spaccata da un sorriso ebete. Dalle cuffie di Guenda giungeva il funereo ritornello Such a shame dei Talk Talk.

Una scarpinata, eh? li interrogai perfidamente.

Due passi, fece Gherardo, ma con questo sole abbacinante…

E avete preso la benedizione?

Certo, gracchiò Madam.

No, disse Gherardo nel contempo.

Si o no?

Lei sì, io no, precisò Gherardo. Il monaco ha insistito, ma io gli ho detto che fatico a abbracciare le persone, figurarsi una religione. Resta il fatto che…

Noi andiamo a casa sua, lo interruppe Madam, vuole mostrarmi delle cose fantastiche. Venite anche voi? aggiunse, intonando la domanda come a dire Statevene a casa, cessi!

Devo finire il mio lavoro, dissi neutro.

E Guenda?

Baderò io a lei.

Ma non fate i pirla, eh! si sentì in dovere di ammonirmi.

Uscirono. Di là della porta li sentii ridacchiare.

Guardai Guenda. Se ne stava lì, riversa in poltrona, tutta sudata nel suo costume bagnato: con un braccio si copriva gli occhi. Aveva la bocca aperta e le gambe divaricate, scomposte come quelle di una bambola rotta. Al solito un rivolo di saliva le colava da un angolo della bocca. Dalle sue cuffie ora si propagava Un’avventura di Lucio Battisti. Forse era sveglia, qualunque cosa significasse per lei essere svegli. Oppure aveva selezionato la modalità casuale dei brani. Andai in bagno, inumidii un asciugamano e tornai da lei. Le scostai il braccio e con un angolo dell’asciugamano le ripulii la bocca, il viso, le sopracciglia scure incrostate di sale. Lei gemette flebilmente. Sistemai i cuscini sul divano, la presi in braccio e ve la adagiai delicatamente. Era dimagrita, aveva i capelli sciupati e la pelle arrossata dal sole. Aveva cinquant’anni e il fisico di una ragazzina. Era bellissima.

Se non fosse stato per la malattia, come la chiamavamo in casa, non l’avrei lasciata. Avevamo tentato di tutto ma niente aveva funzionato. Gli psichiatri e le cliniche private non facevano che imbottirla di farmaci. Gli psicanalisti s’imbottivano dei suoi silenzi. Non ho niente da dire a quelli là, gemeva Guenda. Nemmeno con me parlava più. Muta, soffriva. Abitava un mondo suo, che mi figuravo come una distesa silente racchiusa tra pareti di ghiaccio. Non permetteva a nessuno di entrarvi. Non permetteva a se stessa di uscirvi. Agonizzava lì, in quel suo inferno bianco, giorno dopo giorno, inverno dopo inverno. A primavera peggiorava. A primavera, sole o pioggia, freddo o tepore, piangeva sempre. Lei diceva di stare meglio, qualche parola le usciva dalle labbra: Le lacrime? è il ghiaccio che si scioglie e viene fuori dalla mia testa.

Quando arrivava l’estate, risorgeva. Una benedizione, la doppia felicità di chi avendo sofferto tanto scambia la normalità per il paradiso. Mesi radiosi infilati uno dietro l’altro come perline: due, tre, a volte quattro, se l’estate era particolarmente lunga e calda. Poi l’autunno le piombava addosso e Guenda franava di nuovo.

Andiamocene, dicevo io, leviamoci di qui. Andiamo a vivere in un paese caldo – estate tutto l’anno. Starai bene, Guenda. I ragazzi sono grandi, non hanno più bisogno di noi. Berenice è andata, se la caverà. Augustarello sta cucito addosso a Madam. Lei lo adora ora che lui la aiuta negli affari. I ragazzi sono a posto, Guenda. È ora che torniamo a pensare a noi. E poi ci potranno sempre raggiungere…

Hai il tuo lavoro, diceva lei.

Il mio lavoro? Guenda, scrivo di partite di calcio di serie C e D.

No, lo scrittore.

Non ho più idee Guenda. I Frattali è stato un caso, una fatalità, una botta di fortuna. Non sono un romanziere.

Sei così intelligente.

Se fossi intelligente ti avrei già portato via di qua.

Quest’inverno ce ne andiamo, promesso, si convinceva nei giorni d’estate. Magari all’estero ti verrà qualche idea, mi convinceva.

Poi arrivava l’autunno, arrivava l’inverno, e lei non usciva più di casa, non riusciva a muoversi dal divano, quando era in grado di raggiungerlo. Altrimenti se ne stava a letto, al buio, per intere settimane. Mangiava poco o niente. Aveva freddo. Soffriva. Si imbottiva di pastiglie. Dormiva. C’erano giorni in cui pensavo di compiere un gesto. Poi inorridivo di averlo pensato. Altri in cui mi sdraiavo al suo fianco e la abbracciavo per ore. Altri in cui meditavo di lasciarla. Morivo a vederla morire così.

Negli anni avevo messo da parte qualcosa. Nessuno lo sapeva, nemmeno Guenda. Un piccolo tesoro segreto cresciuto negli anni goccia a goccia che avevo custodito gelosamente, a costo di subire le umiliazioni di Madam ogni volta che staccava un assegno. Tieni, pirla, diceva. I soldi appartenevano a Guenda, ma Madam l’aveva fatta interdire giudizialmente, facendo leva sulla malattia e su qualche gesto sconsiderato compiuto dalla figlia (due appartamenti situati in pieno centro a Milano, donati a un paio di amiche divorziate).

Un giorno prelevai tutti i miei soldi e sparii. Non scrissi nemmeno un biglietto. Ero convinto che lo shock dell’abbandono sarebbe servito a portare Guenda da me, ovunque fossi andato. Purché fuori dall’inverno di Milano, fuori dall’inverno di quella sua povera testa.

Alla prima e-mail che le inviai da Samui non rispose. Così alla seconda e alla terza. Alla quarta rispose Bastardo. Alla quinta Bastardo bastardo. Poi non mi scrisse più.

Incontrai Patcharee: inizio, sviluppo e tragica fine della storia – il plot di un romanzo d’appendice dell’Ottocento, la storia esotica di un uomo maturo con una giovane scaltra e snaturata che alla fine lo lascia in rovina.

Due anni dopo Guenda si fece viva con una e-mail. Ho bisogno di una mano, scrisse, ti raggiungo tra una settimana. E senza comunicarmelo, era arrivata all’aeroporto insieme con Madam.

Le diedi un bacio sulla fronte. Poi la coprii con una coperta leggera, accesi il condizionatore, e tornai al computer.

Poco dopo le cuffie di Guenda presero a innervare l’aria delle vibrazioni psichedeliche di Mysterious Semblance at the Stand of Nightmares dei Tangerine Dream. Non c’era brano al mondo capace di ispirarmi altrettanto quando si trattava di trasvolare per i cieli iperuranici di Nettuno e poi di planare laggiù, su quello stadio da hockey gremito di perfidi Lucrox.

giulio e l'elefante

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