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UN DIVANO SUL PACIFICO: MADAM TUTT’UN’ALTRA STORIA (parte 6)

giulio e l'elefante

Di Giulio Ranzanici (AG RF 25.08.2013)

(riverflash) – Con la grazia con cui avrei ripulito un bebè la lavai sotto la doccia. Guenda lasciò fare, con lo stesso fiducioso abbandono. Le sue parti intime richiedevano l’intervento di un’estetista, una mano femminile che potasse le criniere sparse come ciuffi di alghe che fluttuavano alla deriva.

Tornammo, poco dopo, alla spiaggia arrancando sotto il sole cocente, carichi dei tre enormi cuscini (due io, uno Guenda) sottratti alla seduta del divano. Madam ci apostrofò con un Ce ne avete messo del tempo, mica avete fatto i pirla, voi due, eh? Quindi si alzò dalla branda per darmi modo di sistemare i cuscini. Arturo ne approfittò per alzare la zampa sulla mia gamba e pisciarci sopra. Quando sentii colare il rivolo caldo, gli sferrai un calcetto occulto, di lato. La mossa non sfuggì agli occhi della sua vera madre che ruggì Riprovaci e ti cavo gli occhi, pirla!

Mi sciacquai il polpaccio in mare ferendomi un piede con il corallo. Sanguinando debolmente, tornai a sistemare i cuscini. A lavoro ultimato, Madam stese il suo asciugamano di spugna con disegni astratti, celesti e vagamente oceanici accanto al sarong su cui era allungato Gherardo, vivacizzato da molteplici ordini di elefanti dorati su sfondo blu. Arturo ne approfittò per accoccolarsi sul cuscino centrale e sgranocchiare il granchio biancastro che stringeva tra i denti. Sotto i colpi della masticazione, il piccolo moribondo si torceva con flebili contrazioni delle chele.

Guenda si era rimessa le cuffie. Rianimata dalla doccia, era passata a We are the champions.

L’intimità creatasi dalla prossimità tra Gherardo e Madam portò quasi subito la conversazione sul tema che più avevano a cuore entrambi, il denaro. Nessuno, a parte i poveri, ama parlarne quanto i ricchi.

In Italia la crisi era un disastro, aveva fatto bene, lui, a trasferirsi in Thailandia. Degli investimenti (di lei) fatti dopo la cessione dell’azienda della gomma (del marito defunto) non ce n’era uno che andasse bene: l’IMU aveva abbattuto il valore degli immobili, gli inquilini non pagavano oppure pagavano meno, a loro capriccio, e sempre in ritardo – che pirla! –, le sue azioni erano crollate, la borsa era una truffa, le tasse erano alle stelle, l’oro fisico acquistato pochi anni prima – venticinque chili tra monete e lingotti distribuiti nelle cassette di sicurezza di quattro (cessi di) banche diverse – valeva il trenta per cento meno e la sua quotazione continuava a scendere a rotta di collo, la polizza sulla vita che avrebbe dovuto garantirle una rendita minima del due e mezzo per cento l’anno sul versato, rendeva si e no il due, sempre che la compagnia di assicurazione non fosse saltata trascinandosi nel gorgo l’intero capitale. Per giunta le toccava occuparsi anche della gestione dei beni di Guenda che in quel campo era un disastro – pure negli altri, se è per quello, figurarsi adesso conciata com’era, quella pirla. Grazie al cielo, poteva contare, oltre che sulla professionalità di avvocati e commercialisti, notai e consulenti finanziari (di cui sciorinò nomi e cognomi come le Litanie dei Santi), amministratori e segretari, anche sull’acume e sulla competenza di Augustarello che di sicuro non aveva preso dai genitori, se mai da lei, Madam.

La sua fortuna e saggezza (di lui) avevano fatto sì che in Italia non gli restasse altro che il reddito proveniente dai diritti d’autore de L’amore impestato – poco o niente rispetto al resto –, diritti che per altro Montatori pagava con ritardi colossali, e – nutriva il fondato sospetto – giocando al ribasso sul numero di copie effettivamente vendute. Il suo patrimonio che, precisò con un sorriso, ammontava a circa diciotto milioni di euro – Madam non fece una piega, dato che il suo doveva totalizzare almeno il quintuplo –, era convolato in Thailandia insieme a lui, ridistribuendosi quasi per intero in lotti edificabili e in appezzamenti rivieraschi sparsi tra il Sud di Bangkok, il Surat-Thani meridionale e la stessa Ko Samui. L’economia thai teneva bene, il PIL era tuttora in crescita, l’edilizia era rampante e selvaggia, gli sembrava di rivivere il boom economico dell’Italietta degli anni Sessanta, se l’avesse scovata in buone condizioni si sarebbe fatto volentieri una Lamborghini Miura S dei primi anni Settanta, possibilmente arancio, da usare di tanto in tanto per qualche scorribanda notturna giù a Chaweng (il motore scaldava troppo per poterla utilizzare durante il giorno). Le ragazze sarebbero impazzite, non c’era da dubitarne.

Seduto poco discosto con le ginocchia abbracciate e la fronte sulle rotule, ascoltavo e non ascoltavo, in uno stato di crescente comatoso furore. Due anni prima avevo lasciato amici, in Italia, che non arrivavano a fine mese, e non passava giorno senza che mi chiedessi se a questo punto fossero morti di fame o sopravvivessero di rapine. Io stesso tiravo la cinghia per mettere insieme il pranzo con la cena. Che ci facevo in mezzo a quei due che si lamentavano di un qualche inquilino moroso (ne sapevo qualcosa) o di una Lamborghini arancione che non era il caso di usare di giorno perché il motore surriscaldava?

Li maledissi, ma più ancora maledissi me, la mia vigliaccheria, e nello stesso tempo invidiai Gherardo, non per il suo successo né per gli averi (ereditati dopo la morte della seconda moglie, una patrizia romana che lo aveva amato al punto di ammalarsi quando aveva scoperto la misura della sua infedeltà e l’irriducibilità della sua indifferenza – ammalarsi di tumore al cervello e morire nel giro di pochi mesi, e continuare a amarlo fino alla fine tanto da lasciargli l’intero patrimonio), no, non lo invidiavo per ciò che aveva. Benché ridicolmente vanitoso e a tratti cicisbeo fino all’ipocrisia, trovandosi al mio posto in una situazione come quella sarebbe saltato su e senza tanti complimenti avrebbe mandato quei due snob a fare in culo vita natural durante.

Io, invece, non sapevo far altro che starmene lì a subire, pietrificato come un’alga disseccata, a piagnucolare nel mio inutile cuore gonfio di pus come una gengiva purulenta. Alzai la testa e guardai Guenda. Si era tirata su da terra. Dopo la doccia aveva indossato un costume intero, nero con bordure fuxia, come a perpetuare nell’abbigliamento da spiaggia le tinte della sua tenuta abituale. La sua specifica uniforme da depressa costituzionale.

Appena arrivati in spiaggia, ci si era buttata sopra di pancia lunga e tirata, tanto che temevo si sarebbe soffocata. Adesso che si era alzata, il suo lato anteriore era cosparso dalla testa ai piedi di sabbia bianca. Mentre si liberava della rena spazzolandola via con una mano, pensai alla risurrezione di una sogliola infarinata che si ripuliva con una pinna prima di ritornare al suo elemento naturale. La raggiunsi sul bagnasciuga.

È calda, disse la sogliola.

Aspettateci, veniamo anche noi, disse Madam in uno squittio che pareva un ruggito.

Per raggiungere l’acqua alta, dovemmo camminare a lungo prestando attenzione alle insidie del corallo. (Argonauti alla riscossa, pensai con contrizione.) Vicino a riva l’acqua era calda, torbida e densa come piscio verde – l’eiezione vegetale di un mostro sottomarino da un miliardo di tonnellate.

Con qualche bracciata a stile gambero Madam raggiunse una postazione sufficientemente lontana dalla nostra (io mi tenevo a mezzo metro da Guenda per paura che affondasse da un momento all’altro) e tormentosamente vicina a quella di Gherardo. Mi resi conto che la posizione di quella testa cementata, fissa su di lui, sembrava naturale, ma non lo era, no, quella non era la testa di una donna che guarda un uomo. Era chiaro che sotto il pelo dell’acqua il busto era girato di almeno sessanta gradi rispetto al collo e che Madam non stava affatto guardando Gherardo, ma un po’ più in basso, come cercasse sulla superficie del mare qualcosa di galleggiante sfuggitole dalle mani.

Tornando a riva Gherardo si ferì a un piede. Si trattava di una cosuccia impercettibile, un graffio da niente, la metà di quello che mi ero fatto io. Lui però si lamentava come un moccioso, così Madam decretò che bisognava medicarlo immediatamente. Prese Gherardo sotto braccio e imboccò il sentiero di casa. Nella fretta scelse il braccio sbagliato e li vidi andare via con lei che guardava dal lato opposto a quello dove stava Gherardo.

 

Non passò molto tempo prima che Guenda si stancasse della spiaggia. Non c’è niente qui, frignò. Tornammo a casa. I due sembravano spariti. Poi udii i gemiti. Provenivano dal casotto degli attrezzi che affiancava la casa. Lasciai Guenda sul divano con le cuffie che urlavano With or without you.

Raggiunsi il casotto e sbirciai da una fessura dell’assito. Restai di sasso. Li vedevo di tre quarti: erano nudi, in piedi. Madam aveva le mani legate, appese in alto, al gancio per la biciletta infisso nel soffitto. Certe striature color vino larghe come un dito le segnavano la natica sinistra, l’unica che dalla mia postazione riuscivo a scorgere, una emiciclo lattiginoso di pancetta rassodata dalle magie della chirurgia estetica. Attaccata via a quel modo, la signora sembrava un quarto di bue appena squartato. Con furore Gherardo penetrava da dietro quelle carni bovine, mostrandomi a sua volta le chiappe candide, tremolanti sotto i colpi di reni. Erano scarne eppure afflosciate su certe gambine sottili e nodose, da struzzo. Madam lo incitava rudemente sbiascicando frasi oscene. Lui eseguiva con solerzia schiaffeggiandole le natiche e avvelenandola di paroline d’amore: Tiè, tiè. Lo sai che la figa è Dio? Lo sai, puttana, eh? Lo sai che la figa depilata è un Dio buono portatore di pace? Adesso vieni a casa mia e ci penso io a ’sti brutti pelacci, capito troia? e con una mano si intuiva che glieli tirava forte forte come per strapparli. Madam si torceva, si divincolava, emetteva certi gridolini, piagnucolava, si ribellava, ansimava, e poi annuiva sottomessa con oscillazioni svergole del collo. Eccola qui la despota, la dominatrice, la satrapa del mondo che godeva a schiacciare pubblicamente la testa dei suoi sudditi dall’alto della cresta, eccola qui nell’intimità del cavo dell’onda che si divertiva a farsi oscuramente soggiogare come una schiava mesmerizzata e autolesionista. Ah Madam, croce senza delizia della mia povera esistenza! Fui tentato di bussare. Fui tentato di irrompere nel casotto guardandomene bene dal bussare. Fui tentato di fare il verso ai loro eloqui pittoreschi per farli sentire in fallo, farli sentire i lombrichi che erano. Invece tornai da Guenda. La trovai in cucina.

Ho dato da mangiare a Arturo, disse in tono neutro, da robot.

A terra, vicino alla porta aperta del frigorifero, c’era il cane alle prese con un blocco di ghiaccio che gli schizzava via tra le zampe sbattendo cupamente di qua e di là. Arturo lo rincorreva slittando negli angoli, cacciandolo come un grosso pezzo di sapone bagnato. In trasparenza scorsi certi corpicini rosa di gamberi sgusciati, intorcinati come pieghe di cervelle, che avevo tenuto da parte per i giorni di magra. Con il caldo il ghiaccio si era in parte sciolto e tre o quattro codine facevano capolino spuntando fuori come le dita di un neonato sepolto vivo sotto il permafrost del Polo Nord. Chissà come mi saltò in testa l’idea di dare una svolta chiave al mio racconto inserendovi una partita di hockey su ghiaccio tra Lucrox, che si sarebbe svolta su un pianeta gelido, Nettuno o Urano. Pensai alla gara come a una cosa irruente e sanguinaria, il cui puck da bastonare in porta era un cervello umano surgelato.

 

Eleph samui

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