Coppa di Africa dal 13 gennaio
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UN DIVANO SUL PACIFICO: MADAM TUTT’UN’ALTRA STORIA (parte 2)

(riverflash) – Giulio Ranzanici, seduto sul divano che guarda l’oceano Pacifico, ci narra la seconda parte di «Madam tutt’un’altra storia».

La casa dove vivevo era una delle dodici villette di legno e muratura con il tetto spiovente in stile thai, annegate tra palme e frangipani che costituivano il comprensorio Sunrise Smile di Banwrak, tutte di proprietà di  Suppatra Buttakiao, detta La Guercia. Dalla finestra della cucina, tra le fronde di una palma ondeggiante, si poteva scorgere l’oro del Big Buddha dardeggiare al sole. La casa aveva due terrazze, una davanti che immetteva nel soggiorno e una dietro che dava sulla camera da letto, l’unica. C’era un bagno abbastanza grande per radersi senza urtare le pareti con i gomiti. C’era quanto bastava per essere felici, come un milione di anni prima lo eravamo stati io e la mia Patcharee. Poi, dal giorno stesso in cui lei se n’era andata, la casa aveva assunto l’aria spenta che hanno i residui della verdura cotta negli interstizi della dentiera di un vecchio.

Soverchiato dal primo carico di bagagli, feci strada a Madam e Guenda. Quando varcò la soglia, Madam disse: Che cesso! Guenda scivolò stremata sul divano a molle del soggiorno. Non appena lo vide, Arturo si avventò su Ulisse. Il gatto tirò su il pelo, soffiò come una cornamusa sfiatata, e in un balzo acrobatico volò sopra la testa del cane imbroccando la finestra aperta. Lo scorsi galoppare per il prato comune, lo vidi per l’ultima volta schizzare come un tracciante nella sera, con la sua scia vermiglia di fotogrammi di gatto rosso scomposto in una sequenza di posture galoppanti.
Madam disse: Che pirla di un gatto!

Presero possesso della mia casa come alieni invasori.
Avevo riservato a Guenda la camera da letto, ma Madam disse: rintronata com’è, il divano andrà benissimo. Il punto era che il soggiorno lo aveva destinato a me. E non avrei dormito sul divano. Per l’occasione Billy mi aveva prestato la sua branda da campo, una delle reliquie più preziose dei tempi del Vietnam.
Allo scopo di creare spazio per il guardaroba di Guenda avevo svuotato una metà buona dell’armadio della camera e riposto gli abiti di uso meno frequente in scatole di cartone poi impilate sopra l’armadio. Madam lo svuotò del tutto. Quando ebbe finito, mi chiamò. Porta via questa roba, disse. Presi le mie povere cose buttate sul letto e le gettai a mucchio sulla poltrona vicino al divano. Era piena di peli rossi simili a pezzetti di fili di rame. Il pensiero di Ulisse mi lavorò lo stomaco.

Cercai, più tardi, di organizzare una cena fuori. Con Skype chiamai Gherardo. Non rispose, ma dopo mezzora mi richiamò. Era nudo. Attraverso lo schermo si vedeva solo il mezzo busto, ma sapevo che era completamente nudo, perché spesso si tirava su e ridendo a crepapelle mi mostrava l’uccello depilato, convinto di divertirmi.
Ce l’ho fatta, ce l’ho fatta, squillò tutto giulivo. Sempre più vicino alla teoria del tutto, la merda e Dio, la figa e l’universo, la figa è Dio, tutto è uno, capisci? Il saggio è quasi finito, ormai. Toccandomi i coglioni, uscirà a Natale. Ti ho già detto che la Montatori continua a pressarmi con e-mail su e-mail? Dicono che L’amore impestato sta vendendo alla grande. Perciò ora vogliono L’universo imbizzarrito, lo vogliono subito, finito per settembre. Dio, che caldo fa oggi… Sai che ho nuotato un’ora! Quasi sessant’anni e ho ancora il fisico di un ragazzino. Dovresti nuotare anche tu, ti andrebbe giù un po’ di pancia. Scusa, parlo sempre di me, dimmi di te adesso. Hai riletto il passaggio in cui Annaluce si traveste da uomo? Guarda che L’amore impestato lo dovresti studiare, i tuoi racconti migliorerebbero non poco, anche se il genere che hai scelto, va be’ ne abbiamo già parlato, buona serata, a presto, take care my friend.
Chiuse la conversazione. Take care my friend, Gherardo parlava come una prostituta thai. Richiamai.
Cosa c’è ancora? disse.
Lo ragguagliai sulla situazione, gli dissi delle donne, di Guenda e di Madam, lui tirò su le orecchie e mi chiese quanti anni avesse, glielo dissi, dichiarò che era troppo vecchia per perderci tempo a tavola, mi chiese se mi sarebbe seccato se ci avesse provato con Guenda, dissi che non era il caso, sarebbe stato come farlo con una morta, obiettò che la cosa aveva una sua libidine, lo dissuasi deciso, allora borbottò che non c’era motivo per venire a cena con noi. Dissi che a volte nella vita si fanno cose senza motivo o magari per fare piacere a un amico. A quel punto comparve Madam fasciata in un asciugamano immacolato. Si piantò al mio fianco. Gherardo la guardò attraverso lo schermo. Raddrizzò le spalle e gonfiò il petto. Va be’, vengo, ma solo perché siamo amici, disse. Poi rivolgendosi a Madam flautò: Che incantevole signora! Lei sbatté le ciglia senza dire nulla. Quando chiusi la conversazione, Madam disse: che uomo fantastico!

Prenotai al Big Horn di Chaweng dove si poteva mangiare di tutto. La cucina thai può piacere, e molto, ma pensavo che date le condizioni di Guenda e le esigenze inappagabili di Madam fosse più opportuno un approccio graduale con le spezie incandescenti che arroventano una tom yum koon o che mandano a fuoco una papaya green salad.
Quando raggiungemmo l’ingresso, Gherardo era già lì. La puntualità, diceva, era un difetto più forte persino di lui. Se ne stava impettito con la sigaretta a un lato della bocca e un panama bianco sulle ventitré. Indossava i suoi pantaloni a sbuffo di raso blu pavone e una canottiera, che rappresentava il suo capo d’abbigliamento samuiano di elezione – perché lascia scoperti i bicipiti, diceva. Ne aveva a dozzine, di tutte le tinte e gradazioni: i suoi cassetti facevano pensare a una confezione a tre ripiani di pastelli Caran d’Ache da settantadue pezzi. Per l’occasione si era messo una canottiera da sera di seta elasticizzata color oro che splendeva nel firmamento delle vetrine aderente come un lingotto liquefattoglisi addosso. Quando ci vide prese a ondeggiare mollemente sulle gambe, e a guardare altrove con aria indifferente. Notai che i suoi sandali erano di foggia arabeggiante – cuoio naturale nero e punta all’insù.
Guenda procedeva alla mia destra con le cuffie in testa e gli Uriah Heep che strepitavano a tutto volume sopra il frastuono di Chaweng. Teneva gli occhi sul marciapiede sconnesso, ma ho idea che non lo vedesse dato che incespicava di continuo e per non cadere doveva appendersi al mio braccio. Dall’altro lato Madam affondava le unghie nel mio bicipite con l’intento di conservare dall’alto del tacco dodici dei suoi sandali Versace lilla un passo dalle sembianze più umane che da tirannosauro. Un abito Dolce&Gabbana dal taglio affilato e dalle protuberanze scompigliate e svolazzanti di seta cruda verde acqua, in tinta con le unghie dei piedi che spuntavano dai sandali come lumache dal guscio, la dava l’aria di un uovo di pasqua scartato a metà. Si era raccolta i capelli corvini in una lunga treccia da squaw che le ricadeva sulla spalla destra forse per controbilanciare il peso della testa ancora bloccata dall’altra parte. Guenda, invece, non si era cambiata, caracollava tuttora inguainata nella sua luttuosa uniforme nera, leggins e t-shirt a manica lunga, guarnita come un ipotetico Saturno psichedelico dal doppio ordine di anelli dalla cintura e dalla fascia per capelli color fuxia. Non si era nemmeno fatta la doccia, dando prova di un’irriducibile e perciò grandiosa indifferenza alle insistenze di Madam. La quale allora, borbottando un reiterato Che pirla, aveva provveduto di persona scegliendo accuratamente tre o quattro costosissime fragranze tra la dozzina di profumi firmati che erano comparsi ordinati, ritti e minacciosi come missili intelligenti dal suo beauty case Louis Vuitton inequivocabilmente originale. Con la maestria di un’alchimista consumata e con l’istinto di un pointer inglese da competizione aveva seguito le indicazioni del suo olfatto per la selezione degli spruzzi più appropriati da vaporizzare sulle diverse zone odorifere di Guenda. In una parola, l’aveva deodorata. Ora Guenda mi suscitava l’imbarazzante sensazione di tirarmi dietro i cocci di una profumeria andata in pezzi.
Gherardo ci accolse con uno squillante buonasera, che a me risuonò come un inequivocabile andate a fare in culo. Madam invece dovette esserne estasiata perché, non appena sopito lo strazio delle presentazioni e dei convenevoli di rito, mi abbandonò e gli porse il braccio affinché la conducesse all’interno del locale. Entrarono ostentando la solennità di un cerimoniale reale.
Soltanto dopo che ci fummo accomodati al tavolo, Madam si rese conto che la sua postazione non era quella corretta. Sedeva accanto a Gherardo, ma la testa era girata dal lato opposto. Con un sorriso imbarazzato, si scambiarono di posto. Ora Madam non vedeva che Gherardo.
Dopo un minuto Guenda che dondolava seduta al mio fianco crollò con la testa nel piatto vuoto. Il cameriere, in attesa delle ordinazioni con un tovagliolo bordeaux posato sul braccio come a sottolinearne l’efficienza, chiese piuttosto rudemente se ci fossero problemi. I tossici non sono particolarmente amati a Ko Samui, né altrove, se è per quello.
Gherardo disse qualcosa di garbato, in thai, e il cameriere si defilò visibilmente soddisfatto. Madam lo guardò basita (in verità, inchiodata com’era, non faceva che guardarlo). Gherardo appuntì la bocca com’era solito fare quando cercava di nascondere il suo sorrisino compiaciuto.
Gli ho detto che è sotto cura farmacologica per una forte depressione, disse.
E lei come lo sa? fece Madam.
Sono un mago, signora. Non gliel’ha detto Massimiliano?
Madam girò il busto e mi guardò di sguincio investendomi del disprezzo che un bramino ortodosso riserva a un intoccabile. A essere pignoli, che Guenda era depressa e che s’imbottiva di pasticche neanche fossero smarties l’avevo detto io a Gherardo due ore prima nel corso della telefonata.
Posso suggerirvi le portate? sorrise Gherardo.
Madam scelse il piatto più pesante e indigeribile del menu verbalizzato da Gherardo, la lussuria gastronomica più ambita dai turisti tedeschi e americani: filetto di manzo, gamberoni imperiali e patatine fritte. Quando il cameriere le chiese se il filetto lo volesse ben cotto, lei  lo guardò trucida torcendosi sulla sedia come un Laocoonte semovente e handicappato. Quando lo infilzerò con la forchetta, disse con occhi demoniaci, voglio vedere il sangue sprizzare fuori e macchiare il soffitto. Il cameriere diede segno di aver capito, ma lo scorsi gettare un’occhiata interrogativa all’indirizzo di un architrave. Poi anche Madam se ne rese conto, perché mentre il cameriere si allontanava, lei gli gridò dietro tre o quattro volte il solito Che pirla.
Ai berci della madre Guenda si rianimò, tirò su la testa dal tavolo e disse: E se andassimo tutti alla Terrazza Martini? Madam le spiegò pazientemente che si trovavano fuori mano; di dodicimila e cinquecento chilometri, precisò Gherardo, in linea d’aria per di più, aggiunse soddisfatto di aver potuto fare bella mostra della sua erudizione geografica. Guenda si guardò attorno sbattendo gli occhi, quando incrociò i miei disse: Bastardo. Poi li richiuse e riversò la testa all’indietro, con il collo che andò a arcuarsi come un grosso verme sulla spalliera della sedia.
Sovrastato com’era dalle esalazioni aromatiche di Guenda, l’odore del cibo che si riversava dalla cucina era difficilmente percepibile. Ma nel chiacchiericcio generale si poteva distinguere agevolmente David Byron degli Uriah Heep, tenuto in loop da ore, berciare con malagrazia: I was only seventeen/I fell in love with a gypsy queen/She told me: Hold on.

Neanche a dirlo, la conversazione scivolò sulla seconda attività di Gherardo (la prima, a detta sua, era la magia).
Come, non l’ha letto? disse sinceramente amareggiato all’indirizzo di Madam.
No, ma me ne ha parlato un’amica carissima, un’insegnante di reiki che l’anno scorso ha lasciato Milano per trasferirsi in Toscana. Ah, io certe scelte non le capisco, che pirla!
E cosa le ha detto la sua amica? Gherardo appariva contratto sotto lo sforzo di contenersi. Poteva sopportare tutto, tranne che la conversazione avesse a oggetto altri che lui.
Che Milano puzza.
No, del libro, soffiò.
Ah, che è carino.
Carino? ripeté annichilito. Gherardo mi aveva più volte – rabbiosamente – intrattenuto sull’uso improprio di un aggettivo che riteneva vomitevole. Sottolineò che anche Battiato aveva colto l’obbrobrio: Carine le piramidi a Micene, cantava in un suo pezzo a significare l’abisso dell’ignoranza universale.
Madam, si rende conto che ci ho messo la mia vita, il mio Dio, il mio sangue e la mia merda dentro quel libro?
Madam lo guardò con una strana insistenza. Le lessi in viso la voglia di dire qualcosa come: Che cesso! Ma si trattenne.
Mi parli del suo libro, disse invece.
Fu come dare la stura a un pozzo petrolifero del Qatar. Gherardo parlò de L’amore impestato per una mezzora buona, o così mi parve. Non risparmiò niente, a cominciare dal gesto artistico che lui, soltanto lui, aveva saputo compiere: svolgere la narrazione in prima persona femminile.
Io sono Annaluce Righi, capisce Madam, come Flaubert era Madam Bovary. Lui, però – Gherardo non mancò di lasciar trapelare la propria inoppugnabile superiorità – narrò in terza persona, non si calò direttamente dentro i panni di una donna, nella sua vagina, per giunta malata, come invece ho fatto io, e mi creda se le dico…
In che senso malata? lo interruppe Madam.
Annaluce ha preso l’AIDS, una donna bellissima di nemmeno trent’anni, una pittrice di grande talento.
E come si è ammalata quella pirla?
L’ha presa da un tossico, un borgataro romano di Torre Spaccata senza arte ne parte per il quale ha perso la testa.
Due volte pirla. E poi che succede?
Lo scoprirà leggendo il romanzo. Domani gliene ne porto una copia. Autografata.
Non faccia il pirla lei, adesso! Mi dica cosa succede. Ma non mi racconti il finale. Se domani me lo porta in spiaggia, comincio a leggerlo, non ne posso più di quella nenia di un Baricco. Allora, che succede dopo?
Be’, Annaluce cade in depressione.
Madam si torse per gettare un’occhiata a Guenda, ancora riversa sulla sedia, con le gambe e le braccia spalancate, abbandonate come le avessero sparato. Un filo di saliva color sabbia che pareva seta grezza le pendeva all’angolo della bocca. Sotto lo sguardo di Madam, mi sentii in dovere di asciugarla con un angolo del tovagliolo.
Arrivarono le portate. Rapidamente feci i conti di quanto stavamo spendendo. In tasca avevo tutto ciò che avevo al mondo a parte la moto, un centinaio di libri malridotti e una marea di debiti: tremila e quattrocentocinquanta bath. A occhio e croce eravamo già a quota duemila e otto, senza contare la bottiglia di Ruinart cui Madam non aveva potuto rinunciare. Auspicando un qualche intervento sovrannaturale, rifeci mentalmente i conti. Questa volta il totale era di quattromila e trecento bath. Dovetti arrendermi, non sono particolarmente versato in aritmetica, tanto meno se sono in confusione. Tirai fuori il cellulare per accedere alla calcolatrice. Alzai gli occhi per assicurarmi che nessuno stesse badando a me. Mi imbattei in Madam che piantava la forchetta nella carne con la cautela di chi si aspetta uno spruzzo a alta pressione. I denti della posata penetrarono le fibre e si ritrassero. Non accadde nulla. Allora Madam agguantò il coltello, e freneticamente tagliò via un brandello. Il filetto, dentro, era grigio come un topo. Madam prese a urlare. Che cesso gridò, che cesso, che cesso berciava guardandosi in giro con quella sua testa cementata, solidale con il busto. I commensali, una trentina in tutto, non avevano occhi che per lei. Nessuno rideva. Alla fine una cameriera, con tutta probabilità spedita dal cameriere strapazzato, accorse trafelata.
Yeah, papà, disse al mio indirizzo.

Benché Gherardo avesse sei anni più di me, doveva avermi preso per il più vecchio.
Papà, ha detto? saltò su Madam. La scimmietta è tua figlia? Per questo ci hai trascinate in questo cesso di posto? Cazzo hai combinato, Massimo? Non ti bastava quello che hai fatto a  Augustarello e Berenice?
Massimiliano, dissi. E non sono suo padre.
Ma quella ha detto papà. Ho sentito benissimo.
Già, feci laconico. Non mi andava di farle sapere che la ragazza mi riteneva più vecchio di Gherardo. Ci pensò lui.
No, no, Madam, papà è un titolo onorifico che le thai attribuiscono a un uomo di una certa età, abbiente e responsabile, sorrise vorticando la forchetta vuota al mio indirizzo.
Abbiente e responsabile? Ah, questo pirla, guarda come ha ridotto la mia ragazza. Senta Gherardo, mi faccia il piacere di dire alla scimmietta che il filetto se lo può mettere, ha capito dove?
Gherardo recitò una delle sue formule magiche in thai.
Tra cinque minuti le porteranno un altro filetto, Madam. Al sangue. Perché nel frattempo non passa ai gamberoni?
Che idea fantastica, si ringalluzzì Madam. Mi parli ancora di Albachiara.
Annaluce, fece Gherardo mordendosi un labbro. Niente, dopo la depressione, passa alla vendetta, tutto qua.
Cioè?
Cioè contagia più uomini che può. Muoia Sansone con tutti i filistei, se vuole. La solita vecchia storia, ma funziona sempre.
E poi?
Il poi, Madam, lo leggerà da sé.
Quante copie ha venduto?
Cinquantasettemila, dato di maggio. Montatori sta spingendo per fare il botto.
?
Centomila, Madam. Contano di arrivarci entro due mesi.
Hai capito tu? fece Madam rivolgendosi a me. Lo sa cosa scrive?
Lo so, lo so, Gherardo annuì con gravità.
Le frattaglie del cosmo, disse Madam, schifata.
I frattaliI frattali del Cosmo, precisai.
Che differenza fa? Per quel che valeva. L’ho buttato alla terza pagina. Arturo se l’è mangiato, almeno a lui è piaciuto. Ah, hai lasciato il finestrino aperto o mi vuoi ammazzare pure il cane?
Due dita, come ha detto lei, Madam, non di più se no scappa, dissi.
E quante copie hai venduto, tu?
Seimila, dissi. Non male per un Nettunia, per di più scritto da un esordiente italiano, mi difesi.
Sì da un italiano che ha firmato con un altro nome.
Me l’ha imposto Montatori. I Nettunia si vendono solo se scritti da stranieri, principalmente americani e inglesi.
Ma lo sente questo pirla! disse Madam rivolgendosi a Gherardo.
Che fai, giochi con il cellulare adesso? Lei è su facebook Gherardo?
Lui annuì solennemente, come se Madam gli avesse chiesto se avesse fatto parte del primo equipaggio sbarcato sulla luna. I thai adorano facebook quanto gli italiani, ma a differenza degli italiani non godono a soffrire, perciò le reti wi-fi sono ovunque, libere, gratuite e disponibili per tutti. Gherardo e Madam ne approfittarono per suggellare seduta stante la novella amicizia smartphoniana. Io ne approfittai per rifare i conti. Con la calcolatrice del mio Nokia di otto anni ottenni un terzo risultato, all’incirca a mezza strada tra i due conquistati mentalmente. Lasciai perdere e guardai Guenda. Si era risvegliata e con le mani si portava alla bocca piccole prese di spaghetti alle vongole. Uno spaghetto le fuoriusciva da una narice penzolandole miseramente davanti alle labbra. Lo afferrai con due dita e lo tirai giù. Lo sentii scorrere come un cavo dentro una guaina ben oliata. Venne fuori tutto intero. Lei starnutì, poi mi guardò senza vedermi e cadde con la guancia nel piatto. Madam tirò su lo sguardo dall’iPhone 5S e Gherardo fece lo stesso con il suo Samsung Galaxy S4.
Tutto a posto, dissi.
Rassicuràti, tornarono a relazionarsi via facebook.
Delicatamente sollevai la testa di Guenda, le pulii la guancia con il tovagliolo, spostai il suo piatto e la riadagiai sul tavolo. Mi sentivo a pezzi, la schiena mi doleva per tutti quei bagagli, le condizioni di Guenda mi avvelenavano il sangue, e più tardi avrei dovuto mettermi al lavoro. Mi restavano trentasei ore per consegnare il nuovo pezzo al Bangkok Post. L’impiego era piovuto dal cielo grazie a una serie di complesse circostanze che si erano prodigiosamente dispiegate a mio favore proprio a cavallo del tracollo con Patcharee. Da qualche parte, un Dio doveva esserci.

Mi era stato chiesto di scrivere storie di abduction, di rapimenti alieni. I tahi ne andavano pazzi. Da allora buttavo giù due puntate la settimana, direttamente in inglese, che poi passavo a Billy per le correzioni ortografiche e grammaticali. Quindi via e-mail inviavo la puntata al Bangkok Post che immediatamente provvedeva a redigere una versione in thai da affiancare a quella inglese, e pubblicare il tutto, tra rebus, sciarade e sudoku, sulla pagina degli intrattenimenti. Dei cinquemila bath che il giornale mi inviava con un assegno settimanale, duemila erano per Billy. Lui, che sopravviveva con la sua pensione di reduce di guerra, li usava per comperarsi le galline da decapitare e per divertirsi con una ragazzina di diciannove anni, originaria del Surat-Thani, fragile, bellissima e zoppa per via di una poliomielite infantile, che arrivava a casa sua una volta la settimana su un motorino a tre ruote. Con i dodici, quindicimila bath mensili che mi restavano riuscivo a nutrirmi, fare benzina al PCX, concedermi una volta la settimana un massaggio tradizionale thai per rianimare le vertebre anchilosate, pagare la lavanderia, ma non l’affitto. Benché il contratto con Suppatra Buttakiao fosse a nome mio, il canone l’aveva sempre pagato Patcharee, e anche dopo la separazione aveva continuato a farlo, sebbene con crescenti ritardi. Il che aveva dato luogo a non poche, inaspettate visite a domicilio da parte di Suppatra. Servendosi della sua copia di chiavi, mi piombava dentro casa all’improvviso berciando in laotiano. Benché non capissi una parola, capivo tutto. Patcharee, al solito, era tardiva con i pagamenti. Suppattra era straordinariamente alta per essere thai, un metro e settantatré di donna furibonda torreggiante su di me. Si vedeva che in gioventù era stata bellissima. A questa dote naturale si accompagnava quella, assai più rara, di un’innata lungimiranza. Grazie alla quale del suo corpo statuario non si era limitata a fare – come quasi tutte le ragazze seducenti del Nord-Est della Thailandia piombate a Bangkok o a Phuket a caccia di denaro – un mercimonio effimero, ma aveva saputo trarne un’oculata capitalizzazione. Che anni dopo, ormai alle soglie della menopausa, le aveva consentito di trasferirsi a Samui, comprare un lotto di terra vergine in quel di Banwrak, e tirar su il Sunrise Smile.
Della bellezza dei tempi andati, in Suppatra si potevano ancora scorgere la fierezza dei lineamenti, le narici dilatate, come ricavate dal pieno di un ciocco di tek, nonché l’ipnotica profondità dell’unico occhio rimastole. Si diceva che l’altro, perennemente coperto da una benda blu, si fosse disciolto sotto l’effetto corrosivo dell’acido muriatico che un pappone di Bangkok, abbandonato e impazzito d’amore per lei, le aveva gettato addosso. Aveva capelli candidi come zucchero filato Suppatra Buttakiaio, che portava raccolti in una grossa treccia, come un capo tribù nativo americano.
Mi ero ritrovato a usarla, di recente, come modello alieno, poiché ero a corto d’idee per i miei racconti. Dopo mesi e mesi di collaborazione con il Bangkok Post, avevo esaurito la gamma delle sembianze e soprattutto dei colori da affibbiare alla pelle dei predatori alieni. Dopo i pois ero passato alle strisce, ma rendendomi conto che le strisce pure e semplici (quelle che per esempio costituiscono l’elemento dominante di quasi tutte le bandiere nazionali) erano poco credibili per rappresentare un’epidermide per quanto aliena (al contrario dei pois, che hanno una loro plausibilità antropomorfica –  basta pensare alle malattie esantematiche), mi ero dovuto rifare al regno animale. Dalla mescolanza dei colori del mantello di tigri e zebre con alcuni dettagli tratti dalla figura di Suppatra Buttakiao detta La Guercia si era originata la stirpe dei Lucrox, extraterrestri dalla folta pelliccia striata di bianco, nero e fulvo, provvisti di un occhio solo, nero, liquido e malvagio, e corredati di una lunga treccia di capelli candidi cui erano soliti appendere alcune ossa delle dita delle loro vittime umane, delle quali il boccone più ambito era il cervello, specie se thai. O italiano. Le vittime saccheggiate tuttavia non soccombevano, perché grazie alle avanzatissime biotecnologie Lucroxiane un nuovo cervello, di norma di gallina, veniva impiantato al posto dell’originario. Il che, plausibilmente sul piano di realtà, dava ragione del perché la maggior parte dei thai, nonché degli italiani, si ostina a guidare con due dita in modo tanto decerebrato.

Papà, the bill, mi riscosse la cameriera.
Con la flemma di un giocatore professionale di poker (ma le dita mi tremavano), aprii il porta conto di pelle, nero come un sarcofago. Settemilatrecentoquarantasette bath. Alzai gli occhi, Madam e Gherardo mi guardavano severamente. Gettai uno sguardo a Guenda: dormiva placida come un bebè. Per un istante la invidiai, per un istante pensai di svenire con la testa sul tavolo. Ma poi qualcosa d’imprevisto accadde, qualcosa di tremendamente umano e, insieme, tremendamente divino. Gherardo allungò una mano, prese il porta conto e ci infilò dentro la sua American Express Oro.
Ignorai Madam che puntualizzava come la sua carta fosse ugualmente un’Amex, ma del tipo Black o Centurion – spesa minima annua: trecentomila euro, precisò –, un Dio c’era da qualche parte.

Fine Parte II

Bo Phut, July 7th, 2013
© by Giulio Ranzanici – All Rights Reserved

giulio e l'elefantecubecca plays guitar

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