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“SUBURRA” – La recensione

suburra

di Valter Chiappa

(AG. R.F. 17/10/2015)

(riverflash) C’è un genere in cinematografia che a ragione può definirsi tipicamente italiano, perché dalla storia o dalla cronaca del nostro paese attinge materia inesauribile: è quello che si incentra su tutte le declinazioni dell’italico malaffare.

Quando eravamo un popolo di persone semplici, erano solo racconti di guardie e ladri: un commissario fascinoso e malinconico, bande organizzate alla bell’e meglio, rapine, spaccio, violenza da guappi, criminalità spiccia. Erano i “poliziotteschi” degli anni ’70, B-movies realizzati con pochi metri di pellicola e tanto talento: arditi movimenti di macchina, il montaggio serrato, le colonne sonore di Franco Micalizzi, perle che un cinefilo d’oltreoceano, Quentin Tarantino, ha saputo riportare alla luce.

Oggi il racconto del malaffare è diventato un business. La diffusione di quella fiction che è l’informazione da web ha illuso l’utente di accedere alle stanze dei bottoni, di gettare luce sulle trame oscure che tessono i destini dei popoli, creando interesse morboso per le perverse quanto ipotetiche connessioni fra i poteri di ogni tipo. Nelle nuove trame i delinquenti da strada sono diventati così gli infimi pedoni in una scacchiera immensa, terminali di una rete dalla maglia intricatissima, che allo spettatore, con accorto sensazionalismo, si fa credere che venga svelata. I suoi profondissimi quanto ipotetici gangli, Mafia, Massoneria, Stato, Chiesa, i poteri forti dell’economia diventano prodotti di un processo di deificazione negativa, in cui riporre le cause di ogni male della società. Non da escludere inoltre, fra i motivi di tanto successo, il fascino inconfessabile che questo tipi di criminali esercitano. Non più bulli di borgata, non più padrini con la coppola, ma uomini gaudenti, immersi nella bella società ed in ogni tipo di tentazione mondana: soldi, droga, donne bellissime. A questo ci hanno insegnato a mirare la cultura imperante e gli ultimi decenni della vita politica.

Film come “Gomorra” e “Romanzo criminale” hanno aperto nuovi scenari, anche per le intrinseche qualità artistiche. Ma non è ai capistipite che dobbiamo riferirci, per valutare un film come “Suburra”, ma piuttosto alle serie televisive che hanno seguito, come romanzi di appendice, sia il film di Matteo Garrone che quello di Michele Placido. Perché “Suburra”, prima che un’opera artistica, come le serie Tv, è un prodotto di largo consumo. E non è un caso che, come le serie Tv, sia diretto dallo stesso regista, Stefano Sollima.

Già nel titolo assonante, “Suburra” si inserisce nella traccia di “Gomorra” (il prossimo, magari un film sulle tangenti, potrebbe lecitamente chiamarsi “Caparra”). Rispetto ai film degli anni ’70 rimane un elemento comune, funzionale da sempre all’efficacia della narrazione: la precisa contestualizzazione geografica. Non più “Napoli a mano armato”, ma nemmeno le vele di Scampia e le case “sgarrupate” dell’hinterland napoletano; messa a fuoco è l’opulenza della Capitale, la città che, come scrisse De Gregori, “è una cagna in mezzo ai maiali”, Roma con i suoi multiformi scenari, dagli aulici resti della Grande Bellezza al degrado delle periferie, dove troneggia volgare la ricchezza degli zingari o dei boss del litorale.

Un titolo – etichetta, un soggetto di largo gradimento, uno sfondo in cui identificarsi, tutti elementi di un marketing accuratissimo. “Suburra”, sia bene inteso, è ottimamente confezionato. La regia è sapiente, il ritmo incalzante; in evidenza soprattutto la fotografia, in un film che sceglie il nero come colore dominante. Ma è la ragione più che l’estro a pesare gli ingredienti. Tutto sa di mestiere, più che di talento. Ciò appare evidente nella scrittura: personaggi (triste dirlo) ormai stereotipati come il politico corrotto, o dal taglio fumettistico anche nel nome, come l’improbabile boss chiamato “Numero 8”; situazioni già viste, enfasi impropria, finale poco fantasioso. Per contro aggiornatissimo è l’intreccio delle connessioni, che unisce le dimissioni di Berlusconi a quelle di Ratzinger (addirittura), i clan dei rom e la malavita di Ostia, escort e PR. Tutto quasi da prima pagina.

In tanta dovizia di mezzi, anche il cast è di livello. Ma si sa, il prodotto di massa può essere di ottima qualità, ma non ammette eccellenze, appiattisce tutto.

E così Elio Germano, nella parte di un uomo viscido e vile, non brilla come al solito. Alessandro Borghi, pur confermandosi superlativo nei ruoli estremi, viene racchiuso in un personaggio angusto come “Numero 8”; eppure recentemente, in “Non essere cattivo”, avevamo visto quanto possa essere stratificata la sua recitazione. Pierfrancesco Favino mette a frutto il suo mestiere con un accurato lavoro sullo sguardo e la postura, tratteggiando efficacemente i tratti, tutti negativi, del politico protagonista della storia. Adamo Dionisi, nel ruolo del boss di etnia rom, è perfettamente nella parte. Però è Greta Scarano, la più brava, cogliendo a pieno l’occasione datagli dal personaggio meglio disegnato dagli autori. Imbarazzante per contro Claudio Amendola: l’espressione che ostenta in tutto il film, l’unica, dovrebbe rappresentare il gelido distacco di un uomo incallito nel male, ma ricorda più il torpore seguente a una abbondante amatriciana. Da ultima citiamo la stellina della fiction Giulia Elettra Gorietti che fa il suo: dispensa bellezza e nudità. Ma sappiamo come anche questi siano ingredienti fondamentali di un certo tipo di merce.

“Suburra” avrà successo, è fatto per piacere, e sarà un successo meritato, perché in ogni caso fa trascorrere 2 ore piacevoli. Porterà denaro nella asfittiche casse del nostro cinema. Venderà all’estero. Aprirà le porte ad una serie TV e Stefano Sollima sarà lì pronto, dietro la macchina da presa. Ma proprio per questo, perché avrà davanti a sé anni di TV, questa volta poteva provare a girare un film.

Voto: 6+

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