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THE SQUARE – RECENSIONE

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di Valter Chiappa
(AG.R.F. 25/11/2017)

(riverflash) The Square“, un’installazione d’arte concettuale, sostituisce un monumento equestre, simbolo di una storia e di idee decadute (letteralmente). Uno spazio di pochi metri quadri delimitato da un contorno luminoso, definito pomposamente “un santuario di fiducia e amore al cui interno abbiamo tutti gli stessi diritti e doveri”. Nel simbolo del quadrato, la forma perfetta per antonomasia, l’arte, ambiziosa, vuole racchiudere gli ideali di una nuova società, dei quali, rivendicando la propria funzione politica, si propone come creatrice e promotrice.

È sufficiente però un evento minimo, il destro furto di un portafogli e di un cellulare per far crollare quel castello di costruzioni mentali. Il derubato è Christian (Claes Bang), il vanesio direttore del Museo che ha acquisito The Square, il quale si lancerà in una ricerca affannosa del maltolto, giungendo ad immergersi in un contesto di anonimi palazzi di periferia, realtà antitetica alla bellezza levigata ed artificiosa dove usualmente galleggia, ciò che il perimetro del suo Quadrato non riesce ad abbracciare.

A seguire una girandola di episodi, non necessariamente interconnessi, in cui ad una pretesa volontà demiurgica ed ordinatrice dell’arte si contrappone una realtà caoticamente e violentemente ribelle ad ogni forma di inquadramento, dalla conferenza dell’artista interrotta dalle sconcezze di uno spettatore con la sindrome di Tourette, all’esibizione del performer che si propone come uomo-scimmia, finendo per sconvolgere la compostezza snob di una cena di gala.

Tutto narra di uno iato insuperabile fra la realtà e la sua concezione o idealizzazione. Il regista Ruben Östlund ce ne offre anche la chiave interpretativa: con la forza delle immagina, quando dissemina fra il turbinio degli eventi immagini di senzatetto, come presenze invisibili nell’indifferenza dei passanti; o dichiarando esplicitamente, come lo spettatore della conferenza che, unico, fa notare il disturbo del disturbatore, mentre tutti si soffermano sull’inopportunità del suo comportamento.

L’autocompiacimento per un mondo falsamente perfetto, dove esporre installazioni di dubbio valore come dei mucchi di sassi (eventualmente sostituibili all’occorrenza), dove anche una borsetta lasciata per caso può diventare un pezzo da museo, sono le manifestazioni di un’arte svuotata di contenuto come le sue opere, onanisticamente gratificata da ciò che appare, del tutto estranea a ciò che è. Ma, ancor peggio, è un’arte incapace di comprendere la realtà, quando essa si presenta in tutta la imprevedibile Verità; un’arte che espone e non si oppone; un’arte dove la mancanza di empatia, di sensibilità, di umanità si traduce in assenza d’impegno, al di là delle belle intenzioni.

La denuncia di Östlund è roboante, soprattutto se la si considera non limitata al mondo della cultura, ma la si estende all’intera società. I valori perbenisti ostentatamente sbandierati del politically correct non sono altro che mere etichette, se i conflitti sociali sono misconosciuti e la realtà è solo quella di una egoistica competizione, che si affanna a difendere le proprie posizioni, materializzate negli status symbol più insignificanti come un misero cellulare. Una denuncia che diventa una inappellabile sentenza di condanna, se, come accade nel film, è affidata alle parole di un bambino, che, implacabile come un tarlo nel cervello, accusa chi, invece di tutelarlo lo ha diffamato.

Opera potente ed ambiziosa quella di Ruben Östlund, carica di complesse metafore che il regista svedese già nel precedente “Forza maggiore” ha dimostrato di saper padroneggiare, affrontata con un acido sarcasmo che strizza il fegato, mentre apre le labbra ad un sardonico sorriso, dipinta col registro del grottesco, seguendo un filo nella cinematografia scandinava che passa inevitabilmente per Roy Andersson. Opera rutilante, caleidoscopica, anche trascinante, se si riescono a seguire le acrobazie mentali dell’autore. Meriti riconosciuti dalla giuria del Festival di Cannes, che gli ha conferito la Palma d’Oro.

Quale il limite del suo lavoro? “The Square” assomiglia troppo all’opera da cui prende il nome. L’ostentata provocazione di Östlund più che di rabbia profuma di elitario narcisismo, in cui il regista, così come il suo protagonista finisce inevitabilmente per cadere (e che lo porta peraltro a girare svariati metri di pellicola in più).

L’intellettualismo consente di scattare fotografie impietose, sezionare con squarci profondi, analizzare con occhio microscopico. Ma è il cuore, illogico, caotico, asimmetrico, a portarci fuori dall’angusto perimetro del Quadrato.

Voto: 7

 

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