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SORRENTINO ED IL PUBBLICO: GENESI ED EVOLUZIONE DI UNO STILE

Paolo Sorrentino

di Valter Chiappa

(AG. R.F. 05/06/2015) (riverflash)

Nello studio della fenomenologia dell’Italico Oscar, riteniamo interessante una panoramica sul rapporto fra l’attività di Paolo Sorrentino e il giudizio del pubblico, ove con questo termine intendiamo non la nicchia dei cinefili o degli addetti ai lavori, ma la massa pagante che fa i numeri al botteghino. Dimenticheremo quindi il Sorrentino sublime cineasta, ma ci soffermeremo sull’immagine che di lui più diffusamente è stata costruita, cercando una possibile relazione fra l’evoluzione di essa e quella del suo linguaggio. Nell’opera del Nostro, cui probabilmente non fanno difetto l’ambizione e la sicurezza nei propri mezzi, riscontriamo difatti una pesata gestione dei desideri, apparentemente opposti ed entrambi narcisistici, di piacere e al contempo di mantenere un elitario distacco. Ciò ha condotto, a nostro vedere, a creare uno “stile Sorrentino”, a sostegno dell’implicita pretesa dell’Autore di essere inseguito dal pubblico, giammai il viceversa.

Lo conosciamo bene, lo “stile Sorrentino”, ora che in “Youth – La giovinezza” è arrivato al massimo della sua espressività: immagini levigatissime e di grande effetto visivo, ambientazioni idealizzate, personaggi iconici (che richiedono interpreti all’altezza), uso esasperato del simbolismo e dello straniamento, fino a creare un’atmosfera apparentemente criptica, ma che invece è solo uno scatto preso da un punto di osservazione originalissimo.

Paolo Sorrentino esplode nel cuore dei suoi fan con “Le conseguenze dell’amore”. È il primo film in cui appaiono mature alcune caratteristiche del suo linguaggio. Le atmosfere rarefatte di un’ambientazione che è quasi un non luogo, la cancellazione dei dialoghi ed anche delle espressioni facciali, a costruire un deserto morale e materiale, in cui, improvviso, tenace ed inesorabile si tesse il sottilissimo filo d’oro di una storia d’amore. Una pellicola quindi apparentemente ostica, ma che in realtà tende la mano alla folta schiera del pubblico dei romantici, cui Sorrentino concede lo sdilinquimento, ma secondo le sue regole.

La nuova passione ha condotto gli estimatori a riscoprire tardivamente le sue due prime, ottime, opere: “L’uomo in più”, storia ancora legata al partenopeo contesto di origine, in cui la forte caratterizzazione dei protagonisti consente a Toni Servillo una performance carica di guasconeria e “L’amico di famiglia”, in cui il personaggio principale viene definitivamente disegnato come un simbolo e in cui l’ambientazione, caratterizzata dalle architetture razionaliste dell’Agro Pontino, tende a diventare uno scenario metafisico.

In “Il divo” l’iconizzazione del protagonista diviene estrema e l’ambizione del regista palese. Sorrentino si impadronisce del personaggio per eccellenza, ma arditamente ribalta il punto di vista: non fa un ritratto di Giulio Andreotti; è il Divo ad essere un personaggio di Sorrentino, tale e quale a quanto il suo stile richiede: un mero simbolo inserito in un contesto surreale. Anche in “Il Divo” viene lasciato allo spettatore un filo cui è semplice appigliarsi, ma c’è da ritenere che il tema storiografico o quello satirico siano assolutamente marginali nelle intenzioni dell’autore.

Stesso discorso in “This must be the place”: un tenue richiamo all’Olocausto fa da filo conduttore alla ricerca interiore di un uomo incompiuto, un cantante rock in disarmo interpretato da Sean Penn. Sorrentino offre il fianco ma principalmente spiazza. C’è, palese, la snobistica volontà di mantenersi distante, difficilmente raggiungibile. Compaiono in questo film le sue ormai celebri massime, sospese fra nonsense e Lapalisse. Inizia anche l’autocelebrazione del suo background culturale, con l’omaggio al leader dei Talking Heads, David Byrne.

In questa fase i fan di Sorrentino sono un gruppo, certo, ben più di un manipolo. Ma il regista napoletano punta più in alto: non gli basta piacere a qualcuno. Preferisce essere odiato da tutti.

“La grande bellezza” è quindi costruito da una parte per scalare l’empireo del cinema mondiale, dall’altra per impattare violentemente contro la massa del grande pubblico. I giganteschi manifesti con quel titolo così evocativo lasciano attendere un’elegia della sempiterna bellezza dell’Urbe. Toni Servillo, allora all’apice della sua popolarità e oggetto anch’egli del culto dei suoi ammiratori, si staglia in abiti da gagà. Il richiamo a “La dolce vita”, in realtà labile nel film, è palese. Sirena per le masse l’impiego dei due attori che più di altri nell’immaginario collettivo incarnano la romanità, popolarmente intesa: Carlo Verdone e Sabrina Ferilli.

Ma ecco lo spiazzamento. Roma è fotografata nel massimo del suo fulgore, ma accanto alla meraviglia se ne descrive il potere mortifero. Il colore popolare appare solo come un rumore di fondo, carico di volgarità. Nelle dichiarazioni del regista lo spreco della vita è il tema cardine del film. La Città eterna diviene l’habitat di una fauna umana disillusa e disincantata, che vive immersa nella Grande Bellezza, ma è incapace di trovarla. Ai due beniamini del pubblico, Verdone e Ferilli, vengono affidati i ruoli più poetici e, al contempo, malinconici. Chi accorre sperando nella grassa risata rimane deluso; ma Sorrentino, col suo misurato bilancino, se da una parte toglie, un po’ concede, riprendendo Sabrina nostra in uno strip-tease epocale. Salvo poi indulgere nuovamente, con l’uso talora forzato di scene compiaciutamente criptiche, alla volontà di un elitario (o snobistico) distacco intellettuale.

La reazione della massa è feroce. La Romanità amatriciana si sente mortalmente lesa. Nei post su Facebook il titolo viene storpiato con ogni termine avente la desinenza –ezza. Neanche la ricercata e meritata conquista dell’Oscar placano la stizza degli spettatori di Raiuno, più forte anche dell’orgoglio patrio.

Obiettivo raggiunto. Assieme al suo stile, è ufficialmente nato il personaggio Paolo Sorrentino, il vero “Divo”, inarrivabile ed inafferrabile, meraviglioso ed incomprensibile, odiato ma inevitabilmente ammirato.

In “Youth – La giovinezza” lo “stile Sorrentino” giunge al suo apice. È un film bellissimo, con scene fortemente evocative che toccano e incantano e scrittura traboccante di guizzi di genio. Ma ha un peccato originale: per la prima volta è preponderante il desiderio di piacere. Lo stile allora tende a diventare maniera, i temi toccati sono di più facile accesso, vibra con insolita frequenza la corda del sentimento. Se poi nel frattempo lo spettatore stesso ha avuto tempo di digerire ed assimilare il linguaggio del regista, ne consegue che sparisce quel rapporto conflittuale tra questo ed il pubblico, che abbiamo voluto identificare come un possibile motore, magari inconscio, dell’eloquenza sorrentiniana.

Speriamo quindi che Paolo Sorrentino riprenda il suo cammino e che il suo essersi cullato nel compiacimento della propria bravura sia un pur comprensibile accidente temporaneo.

Altrimenti il pericoloso effetto collaterale: nell’immaginario comune il cinema di Sorrentino è oggi diventato qualcosa all’interno del quale si capisce poco o forse non c’è nulla da capire, ma che però è estremamente cool, elegante ed asettico come un abito di Armani, noioso ed ammaliante come la musica lounge.

Per noi che riteniamo Paolo Sorrentino uno dei massimi registi mondiali è un rischio inaccettabile.

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