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ROOM – La recensione

Roomdi Valter Chiappa

(AG.R.F. 22/03/2016)

(riverflash)      Cosa rende grande una sceneggiatura? Il contenere, all’interno del cammino retto o contorto di una storia, più mondi, sfere concentriche o intersecanti, magari ignote allo stesso scrittore, ma che il destinatario, lettore o spettatore, riconosce e sente sue. È quanto accade in “Room”, dove una vicenda già permeante nella sua drammaticità, apre le porte a sensazioni o riflessioni complesse e forse indecifrabili.

Una madre, Ma (Brie Larson), un figlio, Jack (Jacob Tremblay), una Stanza. Uno spazio minimo, che diventa un mondo intero per Jack, gli oggetti i suoi abitanti: Lavandino, Armadio, Specchio. Tutto il resto esiste solo nella TV. E il cielo è un quadratino azzurro dipinto sul lucernaio.

Una popolazione minima, ma sufficiente: una Madre e suo Figlio. E il Male. Che incombe a distruggere o completare, nei panni di Old Nick (Sean Bridgers), l’aguzzino che da 7 anni tiene rinchiusa Ma (che un tempo si chiamava Joy), abusandone quotidianamente. Il Male inevitabile, da cui la Madre può solo proteggere il Figlio facendolo nascondere in un armadio e attirando su di sé, sul suo corpo, le attenzioni del mostro. Il Male inesorabile, che chiude dietro di sé la porta con una combinazione segreta e relega Madre e Figlio al loro cosmo microscopico, di cui Egli solo detta le regole.

Quando Jack compie 5 anni è il momento di rivelargli la verità. Gli alberi, i cani e altri uomini esistono davvero e sono fuori da quella stanza: è ora di raggiungerli, è ora per Jack di diventare uomo. Con un artificio i due riescono a farsi salvare. Comincia una nuova vita, con i suoi nuovi orrori. La libertà finalmente conquistata viene pagata con il prezzo di una difficile accoglienza, dell’invasione dei media, di un generale straniamento rispetto a tutta quella nuova luce e le sue inevitabili ombre. Joy non ce la fa. Cade in depressione, troppo il contraccolpo. Sarà Jack, diventato prematuramente adulto, a salvarla nuovamente.

Uscita dalla penna della scrittrice irlandese Emma Donoghue, che ha adattato per il cinema il suo omonimo romanzo di successo, uscito in Italia con il titolo di “Stanza, letto, armadio, specchio”, la sceneggiatura si ispira ovviamente a drammatici fatti della cronaca più nera (si ripensa ai casi di Elisabeth Fritzl e di Natascha Kampusch); ma da quel cupo substrato vola per diventare il contenitore di infinite e profonde riflessioni.

Una storia perfetta per Lenny Abrahamson, il regista irlandese, che ama addentrarsi nei meandri della psiche con trame inquietanti e complesse; lo aveva fatto nel suo precedente film, “Frank”,  viaggio nel disturbo mentale di un cantante che soleva esibirsi nascosto da una grande testa di cartapesta.

Una storia potentissima, con momenti di narrazione meravigliosi: la foglia che cade sul lucernaio e che segnala l’esistenza di un mondo esterno che non può essere elusa; il primo stupefacente apparire della realtà, cielo, alberi, luce, al piccolo Jack che fugge nascosto in un tappeto; la scena in cui lo stesso Jack taglia i capelli, nei quali credeva risiedesse la sua forza, rito di passaggio verso l’età della consapevolezza.

Una storia in cui ognuno può trovare quel che vuole. Semplicemente un thriller claustrofobico, una riflessione sulla relatività del reale o sulla necessità del Male, un percorso di formazione. Noi ci siamo concentrati sulla descrizione del rapporto fra Madre e Figlio, legame inscindibile in cui ruoli evolvono con il tempo e con l’ambiente, in cui la funzione salvifica cambia di soggetto; eppure non ci è stato possibile sviscerare tutte le mutevoli sfaccettature sottintese nella trama. Perché in “Room” tutto è suggerito, forse nemmeno concepito dalla mente dell’autrice, ma è lì presente, germogli di pensieri pronti a fiorire, a ramificarsi indefinitamente nella mente dello spettatore.

“Room” esce quindi penalizzato dalla notte degli Oscar. Seppur gratificato da una delle statuette più prestigiose, quella per la Miglior Attrice Protagonista, giustamente consegnata nelle mani di Brie Larson per la sua interpretazione di straordinaria intensità, avrebbe ampiamente meritato l’Oscar per la Miglior Sceneggiatura non originale, invece assegnato al pur brillante plot di “La grande scommessa”.

È da sottolineare inoltre la stupefacente interpretazione del prodigio Jacob Tremblay, 9 anni, comparabile, se non superiore, per la drammaticità e per la partecipazione emotiva che è capace di suscitare, a quella della protagonista. Jacob ha, per la sua prova, conquistato svariati premi, fra cui il Critics’ Choice Movie Awards 2016; forse era presto per vederlo salire sul palcoscenico dell’Academy, ma è un talento assoluto e, se non si perderà per le infide vie dello show business, farà riecheggiare ancora il suo nome.

Per tutto questo “Room” è un film da vedere, assolutamente. Totalmente rapiti, avvinghiati, storditi durante la proiezione, usciti dalla sala cominceremo a ridiscutere i nostri confini. E a cercare di capire quant’è grande la nostra Stanza.

Voto: 8+

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