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“QUO VADO” – La recensione (ovvero fenomenologia di Checco Zalone)

Quo vado

di Valter Chiappa

(AG. R.F. 06/01/2016)

(riverflash)      Analizzare il successo di Luca Medici, alias Checco Zalone, non attiene alla critica cinematografica o al nostro più modesto commento. Tale è la disparità di numeri da non essere giustificabile con nessuna scelta estetica o di disimpegno. Comprendere perché in soli tre giorni oltre un milione di italiani, cifra che nemmeno una rivolta di piazza sarebbe in grado di smuovere, abbia deciso di alzare le natiche dal divano per tributare il suo omaggio al comico pugliese è piuttosto compito degli studiosi del marketing e della sociologia di massa.

I primi ben possono spiegare come si possa creare il fenomeno. Si prende un quisque de populo in cui si intravedono potenzialità e gli si dà l’imprimatur: “tu sarai una stella”. Non è il pubblico a decretarlo, ma Qualcuno dall’alto ad imporlo. La recente storia musicale, ad esempio, è piena di esempi: da Madonna, alle Spice Girls, a Britney Spears. La tecnica è quella della promozione martellante, dei titoli altisonanti. La qualità non c’entra niente salvo che, quando la macchina gira, la si può benissimo aggiungere: i migliori autori ed i mezzi più potenti la garantiranno.

Gli studiosi dei comportamenti delle masse ci diranno poi perché, alla fine, queste accettino acriticamente quel messaggio e lo facciano proprio, credendo quel che si vuole sia creduto, ma pensando di aver scelto. Interessante osservare come queste tecniche siano ormai da anni comuni anche in politica. Io sono il “Giusto”, il “Nuovo” o quello che si vuole, basta farlo urlare ossessivamente da giornali e trasmissioni e la Fede si plasma a piacimento, facendo individuare nel tale di cui nulla si conosce l’Uomo che si stava attendendo.

Così “Quo vado” è uscito il giorno di Capodanno, distribuito in 1.250 cinema, spesso sparato in più sale e con moltiplicazione degli orari di proiezione. È stata calcolata una copertura del 40% degli schermi nazionali. Il lavoro di Zalone è stato sostentato da un budget importante (10.000.000 di euro dichiarati), che ha consentito di girare in scenari sparsi nell’Italia e nel globo, da Lampedusa alle Isole Svalbard, dalla Val di Susa alla Norvegia.

E allora, partito l’ordine, si va, tutti.

Solo dopo aver fatto queste premesse, si può tentare un giudizio sereno su “Quo vado”.

La storia è quella di Checco, scansafatiche, maschilista, mammone, predestinato al posto fisso di cui conosce e sfrutta tutti i privilegi. Quando il nuovo Governo, sull’onda di millantati propositi di modernizzazione e razionalizzazione della spesa pubblica, decreta l’abolizione delle Provincie, Checco viene invitato a dimettersi con una sostanziosa liquidazione. Ma lui resiste con ogni forza, ricordando l’unico comandamento che conosce: “il posto fisso non si molla mai”. Accetta quindi i trasferimenti che la glaciale dirigente incaricata della semplificazione (Sonia Bergamasco) gli impone sperando di farlo demordere, ambientandosi immediatamente nei contesti più disagiati. Spedito infine, come tentativo estremo, in una base artica, conosce Valeria (Eleonora Giovanardi), una ricercatrice dagli occhi dolci e l’animo puro di cui si innamora perdutamente. Per lei il nostro rinnegherà la cultura da italiano, inserendosi nelle regole della civile Norvegia: non suona più il clacson ai semafori, rispetta le file, si occupa delle faccende di casa, alleva la multietnica prole della compagna. Ma non molla il posto e ben presto il richiamo dell’Italia si farà risentire, proveniente da portavoce insospettabili. Checco tornerà in Italia, alla sua adorata scrivania. Sarà lo Stato a piegarsi e ad assecondarlo. Il cambiamento sbandierato, come sempre, è solo di facciata: basta cambiare il nome all’Ufficio e tutto torna a posto. Perché la Prima Repubblica, questa è la verità, non è mai morta. Esiste ancora una via di salvezza per Checco; sarà nuovamente Valeria ad indicargliela, ma è lontana, lontanissima dall’Italia.

Il prodotto risulta alla fine ben confezionato: Zalone è infatti affiancato da affidabili compagni di viaggio. La sceneggiatura del fido Gennaro Nunziante è brillante e senza pause, prolifica di situazioni comiche ed affilata di battute taglienti. Brave le protagoniste: Sonia Bergamasco, dietro l’algida bellezza trova tempi comici inattesi in un’attrice che ha recitato alle corti di Strehler, Bene e Bertolucci; la promettente Eleonora Giovanardi, fa valere la solida formazione teatrale e non solo un viso che pare disegnato per il ruolo. E poi caratteristi navigati, Lino Banfi, Ninni Bruschetta, Maurizio Micheli, che sanno con mestiere condurre in porto la nave.

La prima, evidente, constatazione è che Checco Zalone è assolutamente nuovo.

I tratti distintivi della sua comicità sono la cattiveria e  il cinismo dissacrante. Ma non può essere accostato ai più nobili esempi del genere: il Villaggio di Fantozzi, i personaggi di Sordi, “ I mostri”, “Amici miei”. Ben sappiamo infatti quale nobiltà di penna ci sia stata dietro quella scrittura. Né riteniamo di poter inserire Checco Zalone nel novero dei cabarettisti emigrati verso il cinema, categoria inaugurata agli inizi degli Anni ’80 da Verdone e Troisi e proseguita con i vari Nuti o da Aldo, Giovanni e Giacomo. Se, ad esempio, il comico romano accoppiava all’istrionica capacità mimetica la conoscenza cinematografica maturata nell’ambiente familiare e il compianto Massimo perpetuava la tradizione di un’antichissima e nobilissima cultura popolare, Zalone è al contrario espressione della non-cultura, priva di ogni riferimento che non sia di infimo livello.

Zalone è difatti naturalmente eccessivo, dichiaratamente becero, sinceramente trash. Però, o forse proprio per questo, è maledettamente efficace. Non solo perché fa ridere, tanto. Ma perché Zalone è il suo personaggio e non c’è distanza fra lui e la realtà che descrive. Il suo ritratto dell’Italia non è quello dell’osservatore raffinato, che snobisticamente si diletta ad utilizzare il registro del volgare, ma una voce proveniente direttamente dal basso; per questo il Paese che mostra ci appare così tragicamente vero nella sua miseria culturale.

Così facendo  Zalone mette in atto, e finalmente, una rivoluzione: abbattere a picconate la distanza culturale che in Italia si è sempre frapposta fra intellettuale e popolo o più semplicemente tra scrittura e realtà. Ne abbiamo viste di commedie in questi anni ed ognuna, con alterni risultati a seconda della qualità della penna, tentava una analisi sociale più o meno blanda. Ma nessuna di queste è paragonabile alle commedie di Zalone, perché esse non sono un racconto, ma piuttosto una fotografia, o meglio un selfie.

Per quanto detto, Checco Zalone ci appare come un unicum. Risulta difficile immaginare poter replicare il suo modello, senza cadere nella banalità o nella volgarità fine a sé stessa. Ma da questo sorge la profonda contraddizione insita nella vicenda artistica del comico pugliese. Trasgressivo, scorretto, rivoluzionario, ma frutto di un sistema che prevede come obbligo la produzione seriale.

La sfida di Zalone, se vorrà continuare ad apportare un contributo innovativo, perché di quello più che di incassi ha bisogni il nostro cinema,  sarà rinunciare, come il protagonista di “Quo vado”, al posto fisso che la Medusa Film gli ha preparato. Ci riuscirà?

Voto: 6+

1 Commento »

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Una Risposta a ““QUO VADO” – La recensione (ovvero fenomenologia di Checco Zalone)”

  1. 1

    Marino dice:

    Grande come sempre il nosytro Valter

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