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“PATERSON” – La recensione

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di Valter Chiappa

(AG.R.F. 31/12/2016)

(riverflash) La poesia è nelle piccole cose? O forse la poesia è ovunque, nel ciclico ripetersi della vita.
Una settimana di Paterson (Adam Driver) e di Laura (l’iraniana Golshifteh Farahani). Lunedì, martedì, mercoledì… ogni giornata si ripropone simile, ma sempre leggermente diversa: la posizione dei due giovani sposi nel letto, il percorso a piedi verso il lavoro, gli incontri sull’autobus di cui è Paterson conducente, autobus che ruota anch’esso circolare nella cittadina che si chiama come lui, la passeggiata col cane, la birra al solito pub. In essa frammenti di dialoghi, magari solo ascoltati, o scambi occasionali con persone sempre uguali o sempre diverse: il caposervizio della stazione degli autobus, passeggeri che lasciano scie di pensieri nell’aria, una bambina, il solito barista, un turista giapponese. E poi Laura: i suoi pensieri leggeri che si traducono in anelli e volute che riproduce ovunque, dalla decorazione dei cupcakes alle tende di casa.

Tutto si traduce in parole, chiamate poesie, che ronzano incessantemente nella mente di Paterson e si riversano su un quaderno di pagine bianche: versi (scritti in realtà dal poeta Ron Padgett), su una scatola di fiammiferi, un bicchiere di birra, un bambino che stringe la mano della madre.

Ma la poesia di Paterson non è volo, né grandezza: i versi più belli sono quelli scritti da una bambina e il suo quaderno, complice il cane, farà una fine miserrima. Poesia è la vita stessa, il miracolo del quotidiano, uno e molteplice, banale e meraviglioso, racchiuso in uno scrigno piccolo, come piccola è la cittadina di Paterson, come piccola è la vita di Paterson.

Il tutto è coerente con la poetica di Jarmusch, fatta di personaggi incapaci di autonomi percorsi, imprigionati da una vita sempre uguale a se stessa ed intimamente legati ai non luoghi in cui si muovono. Trovare per costoro un senso e una promessa di felicità: questo è quanto Jim Jarmusch vuole teorizzare con questo “Paterson”, presentato all’ultima rassegna di Cannes.

È la sua ottica. Ma chi non è disposto a salire sulla mongolfiera che Jarmusch cerca di innalzare, vedrà solo la parabola di un povero cristo che vive in provincia con un lavoro alienante, un cane dispettoso, una moglie svitata ed un taccuino di poesie banali.

Ma anche per chi è affascinato dal mondo minimalista del regista americano, la visione di “Paterson” sembra voglia costringere a sposare un teorema. Lo spettatore è quindi invitato, o obbligato, a cercare, come le briciole di Pollicino, i diamanti nascosti lungo la via percorsa dal protagonista, a piedi o col suo autobus. Si è premiati dalla levità del tocco e dalla sincerità del sentimento; il prezzo da pagare è l’impegno richiesto per trovare lo spessore nell’apparente quotidianità delle situazioni e soprattutto la fatica nell’assistere per 113 minuti alle vicende ripetitive di una vita monotona, cercando di capire perché sia così piena di poesia.
Perché è vero che la poesia cambia la vita, sì: ma quella bella.

Voto: 6

 

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