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I LEADER DELL’UE NON TROVANO LA “QUADRA”

bruxelles_parlamento-europeo di Giuseppe Licinio (AG. RF. 17.06.2014) ore 15.45

Giochi ancora aperti per quanto riguarda il nome del futuro presidente della Commissione Europea (dalla cui scelta dipendono, a cascata, anche le nomine per le presidenze del Consiglio europeo, del Parlamento, dell’Eurogruppo oltre naturalmente ai nomi dei Commissari).

Nell’attesa di convergere su un nome, è stato Matteo Renzi a scegliere la formula più indovinata da dare in pasto ai media per riempire le cronache fino a quel giorno: «Prima di discutere di nomi è necessario parlare di programmi e politiche», ha dichiarato (più o meno quello che dicono in Italia i candidati a qualsiasi carica quando gli si chiede in anticipo con chi governerà in caso di vittoria). Però lo slogan europeo di Renzi dev’essere piaciuto sia al premier olandese Mark Rutte («Prima dobbiamo concentrarci su ciò che dovrà fare la prossima commissione e solo poi decideremo il nome») che alla Cancelliera Angela Merkel («Prima del nome viene l’idea di Europa che vogliamo»).

Ma, slogan a parte, vediamo quali sono i punti fermi delle trattative in corso in queste ore.

La scelta finale del nuovo presidente della Commissione spetta al Parlamento che dovrà approvare la proposta fatta dal Consiglio europeo (l’organismo composto dai capi di governo dei paesi membri). In sostanza un puro atto di formalità. Almeno fino alla passata legislatura. Con il trattato di Lisbona del 2009 (art. 17), infatti, i capi del governo, nel momento della scelta del nome, devono «tener conto del voto degli elettori». E poiché gli elettori hanno premiato il partito popolare sembrava naturale, piacesse o  meno, che il prossimo presidente della Commissione sarebbe diventato il candidato dei popolari e cioè l’ex premier lussemburghese Jean-Claude Juncker.

Si è delineata quindi una contrapposizione, sempre più aspra, fra i partiti del Parlamento da una parte che chiedono che il voto dei cittadini sia rispettato (cosa che farà crescere il loro potere e li renderà sempre più indipendenti dai governi) e i capi di governo dall’altra.

Contro la nomina di Juncker alcuni premier si sono mossi a viso aperto (come quello inglese David Cameron e il premier olandese Rutte) e altri in maniera più defilata (come Angela Merkel e Matteo Renzi). Per il premier inglese, «Junker non è la persona adatta per riformare l’UE» in quanto è un convinto europeista e sostenitore di una cessione ancora maggiore di sovranità degli Stati in favore del Parlamento. Per Cameron, e per la stragrande maggioranza dell’elettorato inglese, la sovranità risiede invece soltanto nei governi.

Renzi ha dichiarato che non gli interessa discutere di nomi ma di «porre fine alle politiche di austerity» e che «appoggerà chi si farà interprete di questa esigenza». Si tratta in maniera implicita di un niet alla nomina di Junker. Il nostro premier ha dovuto fare di necessità virtù perché la presenza di Mario Draghi alla Bce impedisce di fatto che un italiano vada alla guida della Commissione (e nemmeno dell’Eurogruppo) e quindi non ha senso spendere il peso politico del Pd per appoggiare un candidato non italiano (meglio spenderlo per far ottenere agli europarlamentari italiani incarichi di prestigio negli altri organi).

La Merkel è da sempre scettica nei confronti di Junker ma, a differenza di Renzi, deve dar conto a un elettorato esigente che pretende che il voto sia rispettato. Non sostenere Junker sarebbe inoltre uno schiaffo al suo partito, al Parlamento europeo e agli alleati socialdemocratici con i quali governa in Germania. Questi ultimi, infatti, pur avendo perso alle europee, non accettano che passi il principio per cui il voto possa non essere vincolante poiché ciò, in futuro, potrebbe creare un pessimo precedente nel caso in cui il Pse vincesse le elezioni. Pertanto la posizione ufficiale della Merkel è di sostegno a Juncker («è Juncker il mio candidato per la presidenza della Commissione») ma spera che Cameron e Renzi tengano duro in modo da poter scaricare su di loro la colpa di un’eventuale sostituzione. L’unica condizione posta dalla Merkel è che l’alternativa a Junker non sia Martin Schulz, che oltre a non essere gradito da Cdu e Csu, è anche tedesco e quindi sarebbe la dimostrazione evidente di una Europa a trazione germanica. Almeno la forma.

A sua volta Schulz si è ritagliato il ruolo di paladino dell’europarlamento e per questo il 18 giugno, nella riunione con tutti i parlamentari socialisti, punta ad essere riconfermato solo momentaneamente capogruppo del Pse. Questo perché, in qualità di capogruppo, sarebbe l’interlocutore ufficiale nelle trattative coi capi di governo. Una volta scelto il presidente della Commissione, chiederebbe per sé un posto da commissario. In sostanza vuole negoziare il pacchetto di nomine che riguarda pure lui.

Nel caso l’asse paesi del Nord-Renzi facesse saltare definitivamente la candidatura di Junker, gli altri nomi in lista per la candidatura sono l’ex direttore dell’organizzazione mondiale del commercio Pascal Lamy, la direttrice del fondo monetario internazionale Christine Lagarde, il premier danese Helle Thorning-Schmidt e il premier svedese Frederik Reinfeldt (che però proviene da un paese che non ha introdotto l’euro).

Una cosa è certa. Senza l’ok di Renzi nessun nome potrà essere imposto. Vedremo quindi se il premier italiano saprà spuntare il massimo da questa condizione di forza nella quale molto raramente l’Italia si è trovata in passato. Situazione di forza che svanirebbe se i capi di governo, riuniti in consiglio, decidessero di affidare al voto individuale la scelta del futuro presdiente. Uno vale uno e tanti saluti.

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