19 Gen 2015
“THE IMITATION GAME”: la recensione
di Valter Chiappa
(AG.R.F. 18/01/2015) (riverflash)
Chissà cosa e quanto si sarebbe scritto su “The imitation game”, se su questo onesto film non fosse piovuta una pioggia di nomination per i prossimi Oscar (è in corsa per ben 8 statuette).
La vicenda della decrittazione del codice “Enigma” non è nuova agli schermi: già un film di Michael Apted del 2001 aveva come sfondo i laboratori di Bletchley Park, base della intelligence inglese durante la guerra. E la drammatica vicenda biografica di Alan Turing non è sconosciuta al pubblico, essendo stata raccontata in romanzi e serie televisive; in “The imitation game” diventa l’argomento centrale.
Giovane disadattato, genio precoce dal carattere scontroso, uomo incapace di ogni relazione se non con i suoi numeri, omosessuale, fin dall’adolescenza represso nella libera espressione delle sue inclinazioni, mente perennemente afflitta dalle sue ossessioni: è stato facile per gli sceneggiatori trovare in Alan Turing una nuova “Beautiful mind”.
Le assonanze con il film di Ron Howard sono evidenti e molteplici. La lotta ed il parallelismo fra genialità e disturbo mentale, la solitudine e l’incomprensione, un obiettivo da raggiungere come testimonianza del riscatto umano. In entrambi i film si ritrovano i medesimi espedienti narrativi atti a creare la suspense: le difficoltà crescenti, lo scoramento, il sostegno necessario di una donna innamorata, l’illuminazione improvvisa e casuale che permette di trovare la soluzione. Il genio costretto ad umanizzare le sue teorizzazioni, anche questo è un elemento che si ripete: come Nash da un senso alle sue teorie guardando gli amici rimorchiare, Turing farà girare i suoi meccanismi solo giocando al “gioco dell’imitazione”, ovvero comprendendo che la formazione di un codice segreto è pur sempre opera di un essere umano. Bella poi la romantica idea dell’associazione fra la macchina (antesignana dei moderni computer) che Turing deve ad ogni costo realizzare e l’amore perfetto e negato.
Ma, nonostante tutto ciò, alla fine “The imitation game” ci appare essenzialmente un prodotto convenzionale, dalla confezione curata e ben compiuta. Il coinvolgimento emotivo, presente a tratti, è legato essenzialmente alla ottima performance di Benedict Cumberbatch. Questi, attore di solida scuola inglese, appare l’unico degno di salire sul palco di Los Angeles (d’altronde beati monoculi in terra caecorum); riteniamo personalmente generose le altre nomination, compresa quella a Keira Knightley che porta a casa un compitino non più che sufficiente.
Insomma andate a vedere “The imitation game”, ma non aspettatevi un capolavoro. Gli Oscar a volte sono bugiardi.
Voto: 6+