Coppa di Africa dal 13 gennaio
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Il siluro rosso, Lei, e la malinconia degli elefanti

Giulio elefante 

Riverflas – (Un racconto breve breve scritto per evitare di scriverne uno lungo
lungo)

Ai guerrieri della resa, i guerrieri dei 12&12

Samui è Dio.

Certo che questo River Flash mi ha portato fortuna oggi, poiché sette
minuti dopo la pubblicazione in rete del mio Ciascun uomo è un’isola,
eccomi a Lamai, a cavalcioni del siluro rosso, questa mia moto
(motorcyc, in thai) bassa e lunga che pare uscita dalle chine di Stan Lee,
il genio scintillante Marvel Comics, che a guidarla sembra di cavalcare
una lontra oliata dentro un fiume d’oro fuso tanto è dolce, fluida e
morbida: nemmeno un sussulto mi ha raggiunto dal manto dissestato
della provinciale di Samui, la bestiola mi ha fatto godere la strada
panoramica neanche avessi guidato con la lingua che leccava la superficie
di una crema di mango e frangipani, eccomi a Lamai, dicevo, che
raggiungo un certo spazio-tempo con l’intenzione di vedere Nuan e
sbattermela all’istante, questa thai che sembra una masai tanto è snella
e scura e bella e lunga. E fiera.
Nuan malata, mi dice un’amica sua affacciandosi alla porta.
Nuan malata, Nuan assente, Nuan ha il ciclo, Nuan è al mercato, Nuan
Nuan Nuan!
Sorrido di un sorriso storto, cercando di far buon viso a nessun gioco, e
inverto la rotta della navicella rossa. Meglio così, mi dico senza crederci,
me ne torno a casa a scrivere questa nuova storia che mi gira in testa da
due giorni. È una storia che mi fa felice come sempre sono felice, vivo e
euforico quando una nuova storia comincia a prender corpo e a
svolazzarmi nel cervello. Questa, poi, ha l’aria di essere una storia per
me felice doppiamente perché lì dentro io non ci sarò, il che è un
sollievo, voi mi capite: quando scrivo sto sempre in mezzo alle vostre
palle nonché alle mie, scrittore e personaggio insieme, due in uno, come
un uovo dentro una gallina e viceversa all’infinito. Ma lì, no, in quella
nuova storia io non ci sarò. Frena. In realtà, ci sarò ma sotto spoglie ben
più mentite di quelle che indosso ora, per capirci. Anziché parlare di me
attraverso di me, lo farò attraverso i personaggi, due, maschi,
coprotagonisti, uno inglese, italiano l’altro. Personaggi minori: due o tre
coppie di tedeschi e tre muse thai (non venite a dirmi che sembra il cast
di una barzelletta idiota anni Sessanta: sarà una storia con i
controcazzi). Ambientazione: Ko Samui, con un momento saliente a Ko
Pangan (se intendo scrivere un po’ meglio che a cazzo di cane mi
toccherà andarci di persona su quest’isola limitrofa che mai ho visitato,
e Dio sa quanto ne ho voglia con questi trentotto gradi quotidiani).
Periodo storico: questo, la merda che ci stiamo sciroppando tutti, chi
meglio, chi peggio. Narrazione in prima persona singolare. Tinte: forti.
Titolo: pronto, già verificato in Internet: mai usato da nessuno, nuovo di
zecca come l’intestino di un neonato, congruo allo script, perfetto per lo
svolgimento narrativo.
Sarà un lavoro di giorni e giorni, sarà un non vivere per giorni e giorni.
Per non vivere intendo non fare nulla per dodici ore filate al giorno che
abbia a che vedere con altro dalla scrittura, eccetto: 1) bere litri di
acqua, 2) fumare decine di Pall Mall San Francisco, 3) concedermi, la
sera, un massaggio per rimettere in moto le articolazioni, e 3bis)
concedermi per cena, una tom ka koon (zuppa thai a base di latte di
cocco e gamberetti) per rimettere in moto lo stomaco e i pezzi a seguire
tutti aggrovigliati e infognati là sotto. Le eccezioni alla regola non sono
ammesse, tranne un pompino a giorni alterni, che non depriva delle
energie preziose alla scrittura, se mai libera il cervello dai vuoti ingombri
del troppo scrivere.
La meraviglia del cervello è che tutta questa sbrodolata l’ha pensata in
due secondi, il tempo di fare inversione con la lontra senza farmi
ammazzare dai tuk tuk, allontanarmi di dieci metri e prepararmi al
decollo. Con la sinistra abbasso gli occhialoni protettivi, con l’occhio
destro la vedo. Sta sul motorino sull’altro lato della strada, quello che ho
appena lasciato. Brilla. Mi fa un cenno con la mano. Attraverso in
obliquo e, ancora vivo, affianco l’astro nascente contromano.
Che vuoi? dico. Le poso la mano sulla coscia scosciata. Il latex è
cartavetro, al confronto.
Niente, fa lei, candida.
E quel gesto con la mano? Cosa intendevi? Ti voglio.
Sto andando a prendere mio figlio, esce da scuola tra cinque

minuti. Puoi ripassare tra un’ora e mezza?
No. Ti voglio adesso. Mandaci un’amica.
Ok.
E furono gemiti e furono sorrisi, e baci e toccature e tutto un penetrarsi
e un guardarsi, un guardarle gli occhi di petrolio. Quei suoi
denti piccoli, allineati, candidi, aguzzi, nuovi. Le mie dita, le sue dita,
dappertutto, uno stupirsi, un odorarsi (homm mak mak, che odore
delizioso! in thai), un leccarsi sempre, un piacersi e compiacersi, amarsi,
essere o non essere non è un problema, credimi Amleto, se no, fanculo,
tu e le tue menate esistenziali, quello che emerge è sempre Dio.
Un farla felice una volta, due volte, quel mio povero vecchio cuore che
scoppia, brucia, moriva e viveva, finalmente. Un prendersi per mano a
intrecciarsi le dita, strapparsele di dosso come guanti, un guatarsi
ancora, sempre sempre. Un gran finale wagneriano, da urlo. Lei che mi
lascia urlare. Lei che mi lascia libero. La prima comunione seguita dalla
confessione: mi piaci – anche tu mi piaci, pom ciop khun, in thai.
Sawadee cap, arrivederci, montare barcollando sul siluro, fare ciao ciao
con la manina, see you soon, take care, ancora ciao ciao con la manina,
arrivederci, sawadee cap, a rivederci sempre sempre.
Dileguarmi nel buio abbacinante del sole all’apogeo della calura
tropicale, le cinque della sera, leopardarmi delle macchie gialle della
luce, imboccare la prima stradina a sinistra, desiderio di palme, di
frescura, di elefanti. Trovarli, carezzarli con gli occhi, scoprirli
orribilmente legati, in catene, le zampe anteriori imprigionate ai ceppi.
No, no, no, buon Samui, mio Dio grande che tutto contieni, tutto
assorbi, no, no! Queste creature poderose, intelligenti, buone e volitive,
al vertice della catena alimentare non si possono mettere al guinzaglio
per la gioia dei bambini assassini, no, no, no. Giuro che farò qualcosa,
ma cosa? Cosa? Cosa può fare un uomo innamorato contro gli orrori del
mondo, gli orrori del Dio Samui, incarnato nei samuiani che mettono in
ceppi gli elefanti? Gli Elefanti, voi mi capite? Ganesh è un Dio, Ganesh è
un Elefante. Non si mette in catene un Dio o un Elefante. Quando si è
incazzati per davvero, quattro porconi vanno bene, ma le catene no, mai.
Che posso fare? Comprarli e liberali? Quanto costa un elefante in questo
cazzo di mondo un tanto al chilo? Quanto costa un Dio-elefante in
questo cazzo di mondo un tanto a indulgenza? Che posso fare per i tuoi
figlioli, buon Ganesh?
Zuccheri, zuccheri, ragazzo, con tutto quel tuo darti da fare per far
felice Lei e te, hai la glicemia sotto i talloni, il morale sotto i maroni: sei
strafatto di malinconia post-erotica, ecco cos’è, mangia gli Oreo.
Oreo, benedetti Oreo, che tengo di scorta nella plancia del siluro per
momenti come questi. Ma non li mangerò qui i biscottini farcitelli (che i
Ringo gli fanno una pippa), non qui davanti ai prigionieri, no, non mi
delizierò davanti ai martiri innocenti.
Vi amo, fratelli elefanti. Tornerò. Addio.
Uno scoiattolo si tuffa in volo, e schizza come Spiderman da un ramo
all’altro di un frangipani, come a dirmi che le mie parole sono state
accolte. Una vecchia femmina sventola le orecchie e mi guarda con occhi
pieni di dolcezza, gli occhi di una madre. Mamma.
Fa troppo male, cambio registro. Evito le catene e i ceppi, cerco con gli occhi vagine e peni, peni
soprattutto: quando un uomo si sente grande per una pur considerevole
trombata è bene che si renda conto che la grandezza vera è tutta
un’altra cosa. Eccolo là, l’Uccello Universale, lungo come un uomo e
grosso come una coscia. ’Sticazzi, dico ridendo (’sticazzi è la parola più
appropriata – non c’è scrittore al mondo che guardando i cazzi degli
elefanti possa trovarne una migliore.).
Tornerò, elefanti!
Portami in un angolo d’ombra profumata, mio buon siluro semovente,
tre o quattro Oreo, succo vitaminico fruttato e verdurato ormai rovente,
poi casa. E non venirmi a dire, moto, che mi metterò subito a scrivere
(questa avventura fratturata dalla malinconia elefantina o quel racconto
lungo che mi gira in testa).
Non venirmi a dire con il tuo cupo borbottio che mi metterò subito a
scrivere: lo capisci o no che devo vivere, moto?

giulio ragazza thai 2

 

Bo Phut, 30 maggio 2013
© 2013 by Giulio Ranzanici – All Rights Reserved  – (AGRF 30/05/2013)

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