di Daniele Campanari (AG.RF 12.07.2014) ore 13.35
(riverflash) – A guardarlo bene in fotografia Vincent Cernia (Vincenzo De Marco alla nascita) non ci sembra un mostro: camicia bianca, jeans moderno e tatuaggi d’attualità. Tutto fuorché un mostro. E manco un poeta. Ma, d’altronde: come si riconosce un poeta? Non dall’aspetto fisico, certo (che è comunque un buon elemento per conoscere il carattere, dunque anche la scrittura). Ma dalla parola. E in questo caso la parola di Cernia è ricca di immagini forse già viste, ma mai banali; sta sempre sul pezzo. Il suo.
“Non è solo poesia operaia, dissenso e rabbia, è molto di più…” dice il poeta della sua raccolta. Lo dice con ragione. Perché “Il mostro di rabbia & d’amore” è molto di più: è una vita, la vita di chi ha scritto questi versi. La vita operaia, come la poesia che da sempre si sporca le mani con la mescola, che appare spesso e in viaggio, come in “Direzione lavoro” (pag. 21): “Nell’autobus buio/e una canzone di cui il titolo ignoro,/tutto è amplificato/e i pensieri scorrono veloci/come le strisce bianche/sull’asfalto scuro,/e poi luci e bagliori d’acciaio/all’orizzonte vedo/e lì/saranno otto folli ore”. Come a dire che il poeta-uomo già conosce il suo destino.
Ma chi è l’operaio?: “… è prima di tutto un figlio,/è un fratello,/ un padre…”. Dunque l’operaio è tutto e ancora più di tutto. E non può essere che così per uno che con la fabbrica, per la fabbrica ci mangia (e scrive). E la gente non operaia?: “… noi operai dentro/e voi fuori a immaginare/e noi dentro a morire”. Uno spaccato esibito con rabbia, appunto. Ma in questi versi (e altri come questi), a guardarli dietro, ci si vede l’amore. Ed ecco che appare, dunque, il mostro. Il mostro a tre facce: vita operaia; naturalmente vita; la vita, le storie. Che, comunque, a guardarle bene, le facce, se ne distingue una sola: ancora una volta la vita. Ed è giusto così. È giusto che si racconti la vita. Pure quella che è propria d’origine, come in “Puglia” (pag. 33): “Le salentine melodie serali/le magiche meraviglie d’intere terre pugliesi/Dalle curve nel cielo e nel mare/di garganiche viste,/alle distese d’ulivi brindisini/alle spiagge di mar d’amare tarantine/e le salentine melodie serali./Tamburellanti e lunghe passeggiate baresi e cielo, e terra e mare…”.
Quel “molto di più”, poi, lo incontri quando Cernia ascolta e odora e verseggia non lui stesso, ma altri che ci somigliano: “Quante storie puoi ascoltare in un vagone/quante vite puoi odorare in aeroporto/quante persone puoi osservare seduto in un bus/quanti vanno, chissà dove, e quanti tornano da mille posti diversi”. Già, chissà dove vanno. Ma è bene non saperlo. È bene continuare a guardare dentro e poi raccontare. Che sia di mostri di rabbia e d’amore, che sia per poesia operaia.
*pubblicato su aphorism.it
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