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IL BENE MIO – Recensione

di Valter Chiappa
(AG. R.F. 07/10/2018)

(riverflash) La nostra vita è racchiusa in mille oggetti, semplici cose deperibili: un vecchio giocattolo, il disegno di un bambino, l’insegna di un negozio. La loro fragilità e l’evanescenza della memoria procedono di pari passo e, come vento sulla polvere o risacca sulla sabbia, cancellano le orme del nostro passaggio. La custodia è necessaria. Già Orhan Pamuk aveva trattato il tema, scrivendo e costruendo “Il museo dell’innocenza”. Ma se lo scrittore turco legava la conservazione al bisogno di solidificare di un vissuto personale, il giovane Pippo Mezzapesa ne fa una questione sociale, ambientando “Il bene mio” in un paese, là dove l’identità del singolo e quella collettiva sono inscindibili, rendendo così unica la vitale esigenza del loro mantenimento.

Dopo un disastroso terremoto, l’immaginaria cittadina di Provvidenza è stata abbandonata. Il solo Elia (Sergio Rubini) si ostina a restare, legato al ricordo della moglie morta e alle vecchie immagini del suo paese, che sostituisce alla realtà diroccata. A nulla valgono i tentativi di condurlo via dell’amico Gesualdo (Dino Abbrescia) e di Rita (Teresa Saponangelo), la donna che gli porta la spesa e gli offre il suo affetto; ancor meno quelli del sindaco, che lo vorrebbe estirpare con la forza dalle sue case. E neppure l’incontro con una profuga nordafricana (Sonya Mellah), rifugiatasi fra le rovine del borgo, per cui sembra nascere un sentimento. Elia, testardo, resta lì, quando anche gli animali abbandonano Provvidenza, preso da una febbrile quanto misteriosa attività, da una missione il cui senso si svelerà nel finale.

Pippo Mezzapesa realizza un’opera necessaria nell’epoca dell’effimero. Lo fa utilizzando appropriatamente gli strumenti a sua disposizione: la forte valenza simbolico del suo personaggio principale, la prevedibile bravura di Sergio Rubini, che domina la scena, lasciando però briciole ai suoi comprimari, il coinvolgimento della musica, in particolare quella della tradizione popolare. Ma lo fa soprattutto con una sentita e palpabile partecipazione personale, che accende fiaccole di emotività nell’andamento monocorde della storia, così come il calore umano di Elia riscalda il gelo dei suoi ruderi e che, alfine, esplode nello struggente finale.

Il problema è che il messaggio, che si svela a pieno solo nell’epilogo, sembra essere tutto ciò che il regista bitontino aveva da raccontare. Quegli ultimi minuti di girato diventano l’unico fine dell’opera di Mezzapesa, il traguardo verso cui far giungere una vicenda che risulta svuotata di importanza e che procede con scene oltremodo dilatate e talora senza sbocchi (come l’artificio iniziale del ghost movie), fino a raggiungere faticosamente il minutaggio, peraltro ridotto, di 94 minuti.

Sul valore artistico di “Il bene mio”, comunque non trascurabile, finisce per prevalere l’importanza di quel messaggio. Che è drammaticamente attuale in una società che, al di là dei terremoti, tende a desertificare i contesti – paesi ma anche centri storici – dove si annidano ancora gli ultimi residui di umanità (e come non sentir riecheggiare la voce sempre troppo poco ascoltata di Pier Paolo Pasolini?). Ma che ci ricorda anche un intimo bisogno, eterno ed universale: quello, nonostante tutto, di sopravvivere.

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