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“HUNGRY HEARTS”: la recensione

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di Valter Chiappa

(AG.R.F. 28/01/2015) (riverflash)

Non fatevi ingannare da letture superficiali: “Hungry hearts”, il film diretto da Saverio Costanzo e presentato, con ottimo riscontro da parte di critica e pubblico, all’ultima Mostra di Venezia, non parla di veganesimo o miti new age, o meglio lo fa solo incidentalmente.

Questo è un film su un tema antico come l’uomo: la maternità e la difficoltà di essere madre. Ed è un film coraggioso perché, sprezzando la ricerca di ogni facile compiacimento, strappa il sipario da un tabù che nella nostra società pare inviolabile.

In un suo saggio di qualche anno fa il filosofo Umberto Galimberti elencava non a caso, fra “I miti del nostro tempo”, il mito della maternità e, ammonendo, ricordava che ogni madre è Medea: ama e al contempo odia il proprio figlio, gli dona la vita ma è pronta togliergliela, se un adeguato schermo di strutture sociali non fa sì che l’anima buona  prevalga su quella nera.

La protagonista del film, Mina, è invece sola: è un’italiana che lavora a New York e non ha più legami con la famiglia. Da sola Mina costruisce il suo mondo e le sue regole, affidandosi a ciò che trova, le parole di una veggente o i testi dei profeti new age.

Quando, inatteso e forse indesiderato, nasce un bambino, quel mondo trova un senso.

Lo vuole puro ed incontaminato Mina. Erge allora barriere nel suo appartamento, non vuole che vi entrino polvere o campi magnetici, tutto è veleno. Recinta anche il terrazzo dove, isolati non si sa come dallo smog di New York, crescono gli ortaggi di cui nutre la sua famiglia. Perché Mina non vuole che nel suo corpo e in quello del figlio entri cibo impuro. Ed allora il bimbo non cresce, il bimbo non rispetta le tabelle, ma chi le ha scritte? Il bimbo rischia di morire, Mina è cattiva, Mina è pazza.

E invece no, ci dice Saverio Costanzo, Mina è una madre e segue quelli che sono i suoi istinti più naturali: pensare di capire il proprio figlio, pensare di sapere cosa sia giusto e migliore per lui. No, ci dice Costanzo, invitandoci continuamente al dubbio.

Mina si isola: è maniaca? D’altra parte cosa le offre il mondo esterno? Medici drastici e poco empatici, avvocati spregiudicati che viaggiano sul filo della legge, suocere invadenti e pronte a seminare zizzania.

Cerca la purezza Mina, trova solo violenza: è lei la folle?

All’evolvere della vicenda tutto il mondo, la sala persino, è pronta a rivoltarsi contro la protagonista. Ma, vedendo il suo bimbo che la guarda dopo una passeggiata al mare, non sarà più così facile darle torto.

La trama di “Hungry hearts” è dipinta con toni cupi ed il continuo senso di sospensione rimanda alle tecniche narrative proprie del thriller. Ma tale struttura, così solida ed efficace dal punto di vista del racconto, toglie potenza alla possibile utilità sociale del film. È facile difatti vedere in Mina un caso estremo, una situazione borderline, da cui prendere le distanze piuttosto che identificarsi; mentre quello che Saverio Costanzo vuole darci è un messaggio universale, che rischia di non essere colto in pieno.

Questa l’unico appunto ad un film peraltro impeccabile, angosciante quanto basta, utile quanto serve.

Lo impreziosiscono le mirabili interpretazioni, entrambe premiate a Venezia con la Coppa Volpi, di Alba Rohrwacher, attrice che ormai può definirsi la signora del nostro cinema, meravigliosamente a suo agio in un ruolo che sembra disegnato per lei, e dell’americano Adam Driver.

Efficace anche il sostegno della bella colonna sonora, l’ennesima, composta da Nicola Piovani.

“Hungry hearts” apre la porta a cumuli di interrogativi e il dibattito che solleva continua assai oltre l’uscita dalla sala.

Ma se però state per diventare genitori o avete intenzione di farlo, preparatevi: “Hungry hearts” vi mollerà un pugno forte dritto nello stomaco.

Voto: 8-

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