21 Apr 2014
GLI «IO» PRISMATICI DI FACEBOOK
di Giulio Ranzanici (AG.RF 21.04.2014) ore 17:47
(riverflash) – Gavettoni di inchiostro sono stati scagliati contro facebook, tacciandolo anzitutto di nuocere all’umana socializzazione. Saggi e articoli traboccanti luoghi comuni imbastiti di fregnacce, puritanesimi da oratorio e disgustosi panegirici dei bei tempi andati ne abbiamo scorsi tutti – perciò finiamola qua, dimenticate questo incipit parentetico e perciò mezzo paralitico, e cominciate a leggere.
Facebook incarna la co-creazione di un diverso ordine di realtà (!) che si manifesta in un stato di coscienza individuale e collettivo senza precedenti, non riscontabile in passato. Se la cosiddetta realtà del mondo è un’allucinazione almeno in parte – il mondo come rappresentazione – facebook è la rappresentazione della rappresentazione. Un’ulteriore evoluzione dell’Illusione. Un passo avanti. Di più, il passo decisivo per la presa di coscienza del samsara, del velo di maya, della catena delle illusioni di cui facebook rappresenta, oggi, l’ultimo anello, il più facile da cui partire per spezzare la catena, svegliarsi e aprire gli occhi sul Reale – guardare, cioè, ciò che non si vede.
Più che essere alienante, facebook è un mondo alieno, dove gli alieni siamo noi. Un mondo luccicante tutto pareti a specchio, un osservatorio ineguagliabile dove osservati e osservatori coincidono e collidono senza rompersi mai. Specchi indistruttibili – niente sfiga settennale sul pianeta facebook, quindi.
Una dimensione nuova che dà spazio – ognuno il suo, fittizio sempre – alle molteplicità degli io rappresentati. Facebook è conoscenza. All’illusorio potere di tre minuti di celebrità frutto di un paio di dozzine di like e di qualche commento in lode alla mia ultima trovata il mio occhio spirituale predilige il potere reale che cresce nello studio dell’umanità in azione, la mia inclusa. Niente a che vedere con l’osservazione degli umani nel frastuono di uno stadio o errando senza la guida di Virgilio tra gli infernali cartongessi, l’urlo e il furore, di un simpatico centro commerciale. Il mio laboratorio è il laboratorio muto di uno scienziato pazzo, la cui pazzia lo rende curioso se non savio. Il silenzio della camera che arde alla luce dello schermo – la camera ardente – consente, con la sacrale deferenza dovuta al luogo, la solitaria visita a un cimitero a luci a led dove i morti sotto sotto sono vivi e parlano per immagini e parole scritte, se non proprio proprie quantomeno altrui.
È questa la magnifica magniloquenza facebookiana. Per la prima volta la masturbazione mentale, avviata in solitario da Montaigne, rinchiusosi vivo nella sua torre non d’avorio ma istoriata delle sue massime, da solipsistica si è fatta collettiva. Un’orgia universale di pugnette con un miliardo di fanatici di sé che eiaculano trippe cerebrali ovunque e in ogni istante. Parteciparvi sarebbe piaciuto forse a Orazio, di certo a Lucrezio. Pippe a qualsiasi orario, libere da turni, libere da qualsivoglia ordine prestabilito – un caos anabolizzato di pensieri pensierini tenerezze malignità sproloqui sferzate battute idiozie colpi di genio foto fotine vignette video musicali e non. Un perenne carnevale che anziché demistificare, con solennità mistifica ogni cosa, a cominciare dalle inezie, quali la morte altrui e i suoi sentiti R.I.P. di reverente addio alla salma celebre, anzi – caduchi come siamo – un cordiale arrivederci a presto, tanti saluti e baci ma, tocca i cojoni, per adesso di lontano.
Tranquilli, non da pontefice pontifico, nel calderone ci sono dentro anch’io, in qualità di studente studioso e studiato, quando va bene. Quando così non va, nel ruolo di pirla inconsapevole come il restante miliardino che si accieca pubblicando post a vanvera assatanato di consensi (vi piaccio vi piaccio, vi piaccio o non vi piaccio?) e inseguendo introvabili post rivelatori di risposte risolutive a non formulabili domande a vaga ambientazione esistenziale con dentro il vuoto a perdere del che cazzo sto cercando qui nonché meno la paura della morte che il terrore della vita, quantomeno di una vita mia che in carne e ossa non sia mia benché mia soltanto.
Il che ci porta a sgombrare sbrigativamente il campo dalla fuffa. Facebook non crea dipendenza, come la non crea il vino. La dipendenza è dentro chi ce l’ha e le cose fuori per nutrirla sono infinite, per l’alcolista l’alcol, per il tossico le droghe e di regola le tossiche, per il giocatore l’ossessione per l’azzardo soccombente, per il politico il potere, ovviamente su di noi, nonché i soldi, naturalmente i nostri.
Più ricreativo rincasare nella torre di Montaigne. Le sue seghe sono tuttora freschissime, godibilissime, nutrienti come appena fatte. Il linguaggio degli Essays è semplice, mai involuto, l’onestà che li pervade è assoluta, nella misura relativa insita nella condizione umana. Fu il primo uomo sul pianeta a scrivere di sé. Lo scopo dichiarato della sua opera è “descrivere l’uomo, e più particolarmente me stesso. L’argomento del mio libro sono io.” (Lo vedete il primo utente facebook della storia?)
Montaigne scrisse di sé per offrire agli altri uno specchio in cui riconoscere la propria umanità. (La vedete la sua generosità? La vedete la generosità di tutti noi, fetenti utenti facebookiani?) A differenza dei memorialisti a lui coevi, Montaigne non scrisse per tramandare le sue gesta eroiche e i suoi successi mondani (pure ne ebbe alcuni, fu sindaco di Bordeaux). Scrisse per gettare luce sul suo animo, i suoi gusti, le sue predilezioni e idiosincrasie, le luci e le ombre, le sfaccettature, le contraddizioni, i colori stridenti, il caleidoscopio di una personalità mutevole e complessa eppure chiara come siero di latte. Non trasparente, eppure genuina. Umanissima. Mai psicoanalitica, mai freudiana, perciò mai da latte alle ginocchia.
Gli argomenti di cui si occupò sono variegati e si susseguono – destrutturati come on facebook – in ordine sparso. Nominò i suoi testi esplorativi con titoli semplici come Dell’amicizia, Dell’uso del vestirsi, Della crudeltà, Degli odori, Dei cannibali, Dei politici, Dell’esperienza, e – udite udite – Come il nostro spirito è d’impaccio a se stesso. Ovviamente Montaigne era pieno di sé, e dopo averlo letto mi chiedo di che altro dovrebbe essere stato pieno.
Facebook è pieno di persone piene di sé, e dopo averlo bazzicato qualche tempo non sto più a chiedermi di cosa siano piene molte di loro. Nondimeno questo continuo narrarsi e rinarrarsi, postare e commentare, obiettare e contro commentare fa sì che tanti egomaniaci estroversi si distinguano per essere al contempo eccezionalmente introspettivi – una generazione di pertinaci scrutatori ombelicali come nessuna generazione precedente e nessun uomo prima, Montaigne a parte.
Scavando dentro (o inventando o mistificando o negando) la propria esperienza personale ciascun utente facebookiano concorre, in contatto con una miriade di suoi simili simmetrici, alla più prismatica rifrazione dell’identità individuale mai proiettata prima, nella celebrazione dell’Io più maestosa della storia. Chi non ha capito questo, di facebook non ha capito una sega nulla. Facebook ci dà modo, se la nostra sensibilità è di qualche grado superiore a quella di una cozza e la nostra intelligenza non solo in velocità sopravanza di un punto il Q.I. di una lumaca, di conoscerci. Conoscere noi stessi attraverso gli altri e conoscere gli altri attraverso di noi – studiarci (da caso a caso: con o senza occhiali, al telescopio oppure al microscopio) senza essere distratti dagli imbarazzanti magnetismi della fisica presenza, contatto visivo in testa.
Le azioni e le reazioni proprie e altrui che di volta in volta emergono possono essere autentiche o falsificate ma non sono mai virtuali – facebook ci rivela indefettibilmente umani, e ci consente di mettere la nostra umanità a libera e gratuita disposizione di tutti gli altri.
Per quanto per lo più carenti di adeguati pilastri sintattico-grammaticali a sostegno degli architravi linguistici dei congiuntivi e dei condizionali, siamo diventati tutti quanti, in diverso grado e in misura incerta, piccoli Montaigne. Scusate se è poco.
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