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GHOST IN THE SHELL: LA RECENSIONE

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AG.RF.(Federica Guzzon).04.04.2017

“riverflash” – Ghost in the shell, il manga di Masamune Shirow del 1989 ha preso vita negli anime del 1995 e 2004, in tre serie tv e tre videogiochi e dal 31 marzo è al cinema con la regia di Rupert Sanders.

Racconta la storia della Section 9, squadra speciale del governo per sventare attacchi terroristici. In un futuristico Giappone dominato da robot e avanguardia tecnologica l’umano sta scomparendo, modificato e alterato per garantirne longevità e benessere.

La prospettiva è raggiungere le sembianze di Major, interpretata da Scarlett Johansson, una donna con il corpo robotico e il cervello umano.

A seguito di un attacco terroristico la ragazza stava per affogare, per il suo corpo non c’era niente da fare, così la sua mente viene impiantata in uno artificiale.

Questo è ciò che le viene spiegato al risveglio dalla dottoressa Ouélet (Juliette Binoche), soddisfatta della riuscita scientifica del trapianto.

Viene così inserita nella Section 9 della Hanka Robotics, dell’imprenditore Cutter (Peter Ferdinando) .

Tutto ciò che ha è una missione: sventare gli attacchi terroristici, gli stessi che hanno ucciso i suoi genitori.

Major è sola, nessun essere è come lei, non ha memoria, se non delle storie confuse sull’attentato. Una donna senza empatia, senza passato, un’arma potente contro il nemico, senza paura, né della morte né della vita, perché niente ha da perdere.

Eppure soffre di questa diversità, che la esclude, non è né umana né artificiale e il suo ghost (l’anima) è vuoto. Qualcosa però va in corto circuito, le appaiono delle proiezione visive e sonore di un passato che le hanno tenuto nascosto.

Sarà la sua missione a condurla alla verità: trovare il terrorista che vuole distruggere la Hanka.

Scarlett Johansson riesce a impersonare fisicamente le sembianze robotiche, già in Under the Skinn e Lucy aveva dimostrato di sapersi fronteggiare con personaggi di questo calibro. Il suo volto addolcito e molto espressivo tradisce però l’asetticità del personaggio, non in grado di testimoniare la trasformazione di Mira Killian nella sua presa di coscienza. Poco cambia in lei quando scopre di essere stata usata, delle verità taciute e del tentativo di distorcere la sua identità. Lo capiamo solo attraverso gesti e azioni e non attraverso una rivelazione interna e sofferta.

Il film indaga la complessità interna dell’uomo ponendolo davanti una perdita d’identità (temi propri dell’originale) e lo fa con una trasposizione formale. La “conchiglia” che imprigiona il ghost di Mira, potenziata e artificiale agisce e reagisce come l’opera, dove la CGI ricostruisce un intero mondo, abbagliando lo spettatore. La tecnica grafica permette di ricreare dei paesaggi all’avanguardia con proiezioni animate per le strade, uomini-robot, scene d’azioni che prevedono la trasparenza di Major, esplosioni e lotte violente. All’interno si cerca di individuare il posto dell’uomo nel progresso, come questo partecipa o subisce l’evoluzione e come reagisce una comunità. L’essere umano sembra piegarsi al robot, lo emula fino a perdere i propri valori e ragioni di vita. Si sfida la morta per avere l’eternità, ma a che scopo? Per vivere in stanze minimaliste, claustrofobiche, senza una famiglia a fianco, senza parchi, né laghi, in un paesaggio grigio e lugubre. L’abisso sembra risucchiare tutto, nel suo tono blu del cielo, del mare, delle pozzanghere ovunque.

Le persone sembrano non essere affezionate a nulla, non si hanno simboli sulle magliette, religioni a cui affidarsi o idoli, non appaiono foto negli uffici, amuleti, né spazi per conversare.

Così il pericoloso Hacker che si rigenera attraverso una rete dati condivisa, con un corpo assemblato, di metallo e cavi, sembra l’unico umano, l’unico che riesce a vedere la destinazione di questa società.

Solo ritrovando la propria identità Major farà aprire gli occhi agli altri. Alla dottoressa che ormai aveva confuso la sua missione scientifica con le ambizioni imprenditoriali di Cutter, alla squadra capitanata da Aramaki che non sapeva più per chi e contro chi stesse combattendo.

A se stessa, che impara che è ciò che facciamo a determinarci, non il nostro passato.

 Il film ripercorre la storia dell’anime trovando un respiro interno vitale, riesce a inglobare gli spettatori, facendo loro perdere le coordinate spazio-temporali.

Proprio come un respiro il film prende aria, mostra i suoi personaggi, la missione da compiere. Entra nei polmoni, si trasforma, trova il suo climax in un punto di svolta, che è di rottura e metamorfosi con la presa di consapevolezza di Major. Infine rilascia l’anidrite carbonica, scaricandosi, chiudendo ogni sottotrama, senza tergiversare nei dettagli. Lucido affronta con concretezza e azione ogni punto.

Ci mostra i suoi lati teneri e romantici, è rude quando serve, nella lotta e nella sofferenza, è sognatore alla fine aprendo nuove porte, rendendo la sua protagonista un’eroina coraggiosa e piena di valori, un’icona morale e filosofica per i nostri giorni.

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