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“FLORENCE” – La recensione

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di Valter Chiappa

(AG.R.F. 11/01/2017) (riverflash)

“Tratto da un storia vera”, “Ispirato a fatti realmente accaduti”: la scritta sparata nei trailer è evidentemente un richiamo. Le foto in bianco e nero che scorrono nei titoli di coda hanno una fascinazione: quella storia è veramente successa, quei personaggi esistiti. Gli spettatori che ne sono colpiti sono in numero tale da costituire un pubblico. C’è un mercato, si è creato un genere.

Ma, saccheggiate centinaia di vite, estratti dalla polvere della storia eventi più o meno remoti o spulciate dalle cronache miriadi di vicende, diventa attuale la domanda: valeva la pena raccontarle?

Non tutte le biografie sono edificanti, non tutti i fatti offrono spunti di riflessione. O magari, più banalmente, non tutto è interessante. Eppure la ricerca, diventata affannosa, ha condotto sugli schermi biografie di artisti legittimamente relegati alla memoria di chi li vuole ricordare, cronache dell’altro ieri o vicende del tutto insignificanti.

Come quella di Florence Foster Jenkins, eccentrica ereditiera vissuta negli Stati Uniti nella prima metà del XX Secolo, la quale, stonata come una campana, coltivò indomita il sogno di diventare una cantante lirica, fino ad esibirsi, un mese prima di morire, nientemeno che alla Carnegie Hall di New York, il 25 Ottobre 1944.

Questa curiosa storiella è inspiegabilmente diventata soggetto per ben due film, usciti, cosa ancor più paradossale, a poca distanza l’uno dall’altro: “Marguerite”, girato nel 2015 dal francese Xavier Giannoli e questo “Florence” dell’inglese Stephen Frears. Ma se Giannoli reinterpretò liberamente la biografia della donna costruendo una storia originale e dai colori drammatici, Frears la racconta fedelmente, mettendo in campo il mestiere di esperto dei biopic.

“The program”, basato sulle torbide vicende sportive di Lance Armstrong, “Philomena” che scopre il velo su cupe vicende accadute negli ambienti cattolici irlandesi, “The Queen” che, riuscitamente, tratteggia la personalità nascosta della regina Elisabetta, alle prese con le pruriginose vicende della nuora Diana. Tutta o quasi l’ultima produzione di Stephen Frears sembra orientata all’interesse per l’accaduto. Film di buona fattura ed apprezzati dal pubblico, che hanno fatto di Frears uno specialista del genere.

Anche “Florence” mostra le qualità del regista: mano sicura, brio, costumi rutilanti, atmosfere ben ricostruite: insomma mestiere consumato. Un altro prodotto per i botteghini. Questo basterebbe a descrivere il suo lavoro, se ad interpretare la buffa donnina non fosse stata chiamata Lady Meryl Streep.

Non si è a caso la più grande attrice contemporanea (checchè ne dica Trump).

L’interpretazione della Streep è strepitosa: con la mimica facciale tratteggia tutte le bizzarrie del personaggio, diverte con tempi comici perfetti, fino ad essere esilarante nel riprodurre gli strampalati gorgheggi della “peggior cantante di sempre”. Ma ovviamente è un gioco da ragazzi per lei recitare sopra le righe, dando sfoggio di tecnica sopraffina.

Meryl fa di più: come tutte le grandi interpreti soffia dentro il suo personaggio e lo fa levitare, donandogli volume e spessore inattesi. La bizzarra Florence Foster Jenkins diventa così la metafora vivente dell’amore per l’arte, una donna con l’animo puro e gioioso di una bambina, carica di una passione così pregnante ed inestinguibile da trascinare il cuore dello spettatore nel suo mondo ideale. Percorrendo il lato poetico del suo personaggio, quella visuale che lei stessa ha creato, la Streep riesce infine ad essere profondamente toccante.

“La gente può anche dire che non so cantare, ma nessuno potrà mai dire che non ho cantato”. L’arte è sublime illusione e illusione sublime può anche essere credere, anche di fronte alla consapevolezza del vero, di essere un’artista.

Hugh Grant, nei panni del marito, sfoggia anch’egli una buona interpretazione, tenendo il passo alla strabordante compagna. Il suo personaggio racconta un diverso tipo di amore, non fedele ma devoto e silenzioso, l’amore casto e riverente che sublima la semplice riconoscenza verso chi è capace di portare solo del bene. Ad affiancare i due protagonisti Simon Helberg nei panni di Cosmé McMoon, il paziente pianista che accompagnò la cantante durante la sua carriera.

Questa volta l’ennesimo aneddoto raccontatoci da Stephen Frears acquista dignità grazie ai suoi interpreti. “Philomena” era stato sorretto dalla performance di Judy Dench, “The Queen” da quella straordinaria di Helen Mirren. Ma il film biografico (o biopic se preferite) comincia ad avere il fiato corto.

È ora di ricominciare a narrare nuove storie.

Voto: 6

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