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“DUE GIORNI, UNA NOTTE”: la recensione

due giorni

 

di Valter Chiappa

AG.RF. 24/11/2014 (riverflash)

In “Due giorni, una notte”, l’ultima fatica dei fratelli belgi Luc e Jean-Pierre Dardenne, ci sono una vicenda dura come il piombo e Marion Cotillard. Niente più.

L’urgenza del tema trattato impone che non vi sia alcun diversivo al rigore espositivo, questa la precisa cifra stilistica dei registi.

Sandra, operaia in una fabbrica di pannelli solari, tornando al lavoro dopo essere uscita da una depressione, rischia di essere licenziata. Per un sadico gioco del datore di lavoro, il suo verdetto dovrà essere pronunciato dagli stessi compagni, chiamati a scegliere fra un bonus di 1000 euro o il mantenimento del posto di lavoro della collega. A Sandra restano due giorni e una notte per convincerli a votare per lei.

Tutto qua: anche la storia non ha altre fioriture.

Eppure, con pochissimi colori, i registi dipingono un quadro estremamente dettagliato e potentemente drammatico della realtà attuale. La Via Crucis della ragazza, resa ancor più dolorosa dalla sua incombente fragilità e percorsa con l’ausilio di un numero infinito di pasticche di Xanax, mette a nudo un universo squallido, fatto di soldi che non bastano mai, di sacrifici per arrivare alla fine del mese, doppi lavori sommersi o inventati. In questo terreno arido allignano le male erbe dell’egoismo e dell’indifferenza, ma al contempo piantano tenaci le radici una solidarietà ed un afflato umano più forti del nudo bisogno. Spazio per le emozioni ce ne sarebbe a bizzeffe, ma i registi, fattele accendere, si affrettano a smorzarne subito il fuoco. I dialoghi, anche quelli cruciali, sono ridotti all’osso, non serve altra enfasi per accentuare le tinte del dramma.

È la musica a suggerire la concessione a lasciarsi andare: le parole tristi di una vecchia canzone (“La nuit n’en finit plus” di Petula Clark) fanno rinascere la tenerezza fra Sandra e il marito; il classico “Gloria” di Van Morrison & Them dona ai protagonisti un nuovo impeto di energia; ma già sapete che gli implacabili fratelli non vi concederanno più di un minuto per i fazzoletti.

Il loro racconto, la realtà sono più importanti di tutto, è necessario sapere, comprendere, non distrarsi. Il cuore si riempirà ugualmente di tenerezza per gli abbracci senza parole o di livore per le parole sprezzanti.

Nonostante l’esilità della trama e l’essenzialità dei dialoghi, la tensione narrativa viene con abilità mantenuta sempre viva, agendo semplicemente sul volume della fragilità di Sandra, alternando momenti di scoramento, anche estremi, a nuove iniezioni di fiducia, sospendendo ogni risposta dietro un’esitazione, un tentennamento, un ripensamento, rimbalzando fra rinnovate speranze e nuove cocenti delusioni.

Un’architettura così concepita necessitava di basarsi su una grande interpretazione ed il bellissimo ruolo di Sandra, l’eroina dei tempi della crisi, più forte della sua fragilità, non poteva prescindere da una grande protagonista.

Marion Cotillard prende letteralmente sulle sue spalle l’intero film.

Mortifica, senza riuscirci, la sua bellezza con un viso senza trucco, i capelli arruffati e canottine da mercato; assume la postura dimessa di chi è piegato dal lavoro e l’andatura trascinata di chi non è aduso ai tacchi; ma soprattutto suggerisce e guida, ogni cambio di tono col subito mutare del viso, gli occhi pronti a gonfiarsi di pianto, il sorriso che emerge prepotente da una smorfia.

Nella scena finale, niente musica ovviamente, Sandra si incammina a passo deciso, sorridente e felice.

Non la dimenticheremo.

Voto: 7.5

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