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DISOCCUPAZIONE CREATIVA: IL SAGGIO DI IVAN ILLICH – QUARTA PUNTATA

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AG.RF.(redazione).22.02.2018

“riverflash” – Il declino dell’Era delle professioni.

Le illusioni che hanno permesso alle professioni di arrogarsi il ruolo di arbitri dei bisogni sono ormai sempre più evidenti al senso comune.

I metodi seguiti nel settore dei servizi sono spesso percepiti per ciò che in effetti sono: coperte di Linus, tranquillanti, rituali, che celano alla massa dei fornitori-consumatori l’antinomia tra l’ideale in nome del quale viene fornito il servizio e la realtà che da questo stesso servizio viene creata.

Le scuole, che promettono istruzione eguale per tutti, generano una meritocrazia inegualmente degradante e una dipendenza a vita da ulteriori interventi didattici; i veicoli costringono ognuno a fuggire in avanti.

Ma il pubblico non ha ancora ben chiaro qual è la scelta che l’attende.

Da una parte, la tutela degli specialisti potrebbe sfociare in fedi politiche obbligatorie (con le correlative versioni di un nuovo fascismo); dall’altra, le esperienze dei cittadini potrebbero metter fine alla nostra “hybris”, liquidandola come un’ennesima manifestazione storica di follie neoprometeiche ma sostanzialmente effimere.

Una scelta consapevole richiede che si esamini il ruolo specifico che hanno avuto le professioni nel determinare chi in quest’epoca ha ottenuto cosa, da chi e perché.

Per vedere chiaro il punto a cui siamo, immaginiamo i bambini che presto giocheranno tra le macerie delle università, degli Hilton e degli ospedali.

In questi castelli professionali convertiti in cattedrali, eretti per proteggerci dall’ignoranza, dal disagio, dalla sofferenza e dalla morte, i bambini di domani rappresenteranno nei loro giochi le illusioni della nostra Era delle professioni, così come dinanzi ai castelli e alle cattedrali del passato noi evochiamo le crociate dei cavalieri contro il turco e il peccato nell’Era della Fede.

E mescoleranno il birignao che oggi infesta la nostra lingua con gli arcaismi ereditati dalle storie di briganti e di cowboy.

Già li sento chiamarsi tra loro presidente e sottosegretario piuttosto che capo e sceriffo.

Naturalmente gli adulti allora arrossiranno quando gli scapperà qualche termine della lingua creola manageriale, tipo “policy-making”, pianificazione sociale o “problem-solving”.

L’Era delle professioni sarà ricordata come il periodo nel quale la politica si estinse e gli elettori, guidati dai professori, affidavano ai tecnocrati il potere di legiferare sui bisogni, l’autorità di stabilire chi avesse bisogno e di che, e il monopolio dei mezzi con i quali soddisfare tali bisogni.

Sarà ricordata anche come l’Era della scolarizzazione, nella quale gli uomini venivano addestrati per un terzo della vita ad accumulare bisogni su prescrizione e negli altri due terzi costituivano la clientela di prestigiosi spacciatori che alimentavano i loro vizi.

Sarà ricordata come l’epoca nella quale viaggiare per diporto voleva dire muoversi in gregge per andare a sbirciare degli stranieri; in cui la vita intima voleva dire esercitarsi a raggiungere l’orgasmo sotto la guida di Masters e Johnson; in cui esprimere un’opinione voleva dire ripetere a pappagallo il discorso trasmesso la sera prima dalla t.v.; in cui votare significava dire di sì al piazzista che prometteva una dose maggiore della solita merce.

I futuri studenti saranno sconcertati dalle asserite differenze tra i sistemi scolastico, carcerario, sanitario e dei trasporti del mondo capitalista e di quello socialista, quanto lo sono gli studenti d’oggi dalle differenze tra la giustificazione per le opere e la giustificazione per fede che dividevano le sette cristiane al tempo della Riforma.

Scopriranno anche che, nei paesi poveri e in quelli socialisti, in capo a dieci anni i bibliotecari, i chirurghi e i progettisti di supermercati finivano col tenere gli stessi cataloghi, usare gli stessi apparecchi e disegnare gli stessi ambienti che i loro colleghi dei paesi ricchi avevano cominciato a tenere, usare e disegnare all’inizio del decennio.

Gli archeologi periodizzeranno il nostro tempo sulla base non di cocci ma di mode professionali, rispecchiate dalle tendenze in auge nelle pubblicazioni dell’UNESCO.

Sarebbe pretenzioso voler predire se una tale epoca, in cui i bisogni erano modellati da pianificazioni professionali, sarà ricordata con un sorriso o con una maledizione.

Mi auguro, ovviamente, che venga ricordata come la sera in cui papà andò a prendersi una sbornia, dissipò le sostanze familiari e costrinse i suoi figli a ripartire da zero.

Ma disgraziatamente è più probabile che passi alla storia come l’epoca nella quale la frenetica caccia di un’intera generazione alla ricchezza depauperante rese alienabili tutte le libertà, e la politica, dopo essersi ridotta a lamentela organizzata degli assistiti, fu definitivamente soffocata dal potere totalitario degli specialisti.

Il dominio delle professioni.

Di un fatto bisogna anzi tutto rendersi conto: i corpi professionali che presiedono oggi alla creazione, aggiudicazione e soddisfazione dei bisogni costituiscono un nuovo tipo di cartello.

Se non si tiene presente questo fatto, è impossibile aggirare le difese che essi vengono preparando.

Già vediamo infatti il nuovo biocrate occultarsi dietro la maschera amabile del medico d’una volta; il comportamento aggressivo del pedocrate viene minimizzato come semplice eccesso di zelo o ingenuità dell’insegnante impegnato; il direttore del personale, equipaggiato con tutto un armamentario psicologico, si camuffa da capoccia vecchio stile.

I nuovi specialisti, che di solito provvedono a bisogni umani che la loro specialità ha creato, tendono ad atteggiarsi ad amanti del prossimo che forniscono una qualche forma di assistenza.

Arroccati più saldamente d’una burocrazia bizantina, internazionali più d’una chiesa universale, stabili più di qualunque sindacato, possiedono competenze più vaste di quelle di qualsiasi sciamano ed esercitano sulla propria clientela un controllo più stretto di quello della mafia.

I nuovi specialisti organizzati, come prima cosa, non vanno considerati alla stessa stregua dei membri di un racket.

Gli educatori, per esempio, oggi dicono alla società che cosa si deve imparare e hanno il potere di vanificare ciò che si è appreso fuori della scuola; questa sorta di monopolio, che li mette in grado d’impedirti di far compere altrove e di fabbricarti in casa la tua grappa, a prima vista sembra corrispondere alla definizione che il dizionario dà del racket.

Ma il racket consiste nell’assicurarsi a fine di lucro il monopolio di un prodotto essenziale, controllandone il circuito di distribuzione.

Invece gli educatori e i medici e gli assistenti sociali d’oggi, come un tempo i preti e gli avvocati, si arrogano il potere legale di creare quel bisogno che, sempre per legge, soltanto loro saranno autorizzati a soddisfare.

Lo Stato contemporaneo diventa così una “holding” di imprese le quali consentono l’esercizio di mansioni di cui sono al tempo stesso creatrici e garanti.

Il controllo legale della prestazione d’opera ha assunto nel tempo una molteplicità di forme: i soldati di ventura si rifiutavano di combattere finché non ottenevano licenza di saccheggio; le donne organizzate da Lisistrata per imporre la pace si astenevano dai rapporti coniugali; i medici di Coo si impegnavano sotto giuramento a trasmettere i segreti del mestiere soltanto ai propri figli; le corporazioni stabilivano il corso di studi, le preghiere, gli esami, i pellegrinaggi e l e penitenze per cui doveva passare Hans Sachs prima d’essere autorizzato a calzare i propri concittadini.

Nei paesi capitalisti i sindacati cercano di controllare l’occupazione, gli orari e le paghe.

Tutte queste associazioni di mestiere sono mezzi con cui degli specialisti cercano di determinare in che modo il loro genere di lavoro dev’essere fatto e da chi.

Ma nessuno di tali specialisti è ‘professionista’ nel senso in cui lo sono oggi, poniamo, i medici.

Le attuali professioni dominanti, di cui quella medica è l’esempio più cospicuo e doloroso, vanno molto più in là: esse decidono che cosa si deve fare, a chi, e in che modo la faccenda deve essere gestita.

Si arrogano un sapere speciale, incomunicabile, per quanto concerne non solo lo stato delle cose e quello che occorre fare, ma anche le ragioni che rendono indispensabili le loro prestazioni.

Un commerciante ti vende la merce che ha in magazzino.

I membri di una corporazione garantiscono la qualità di ciò che fanno.

Certi artigiani confezionano il loro prodotto sulle tue misure o a tuo gusto.

I professionisti invece ti dicono di che cosa tu hai bisogno.

Si arrogano il potere di prescrivere.

Non si limitano a reclamizzare ciò che è buono, ma decretano ciò che è giusto e doveroso.

L’elemento che caratterizza il professionista non è né il reddito, né la lunga preparazione, né la delicatezza dei compiti, né la stima sociale.

Il reddito può essere basso o divorato dalle tasse; la preparazione può essere compressa in poche settimane anziché richiedere anni; la stima può non essere superiore a quella della professione più antica.

Ciò che conta è l’autorità, di cui il professionista è investito, di definire ‘cliente’ una persona, di determinare i bisogni e di rilasciarle una prescrizione che le assegna un nuovo ruolo sociale.

A differenza dei ciarlatani d’una volta, il professionista odierno non è uno che vende ciò che si potrebbe avere gratis, ma uno che decide quello che va venduto e che non va dato gratuitamente.

Un’ulteriore differenza tra il potere delle professioni e quello di altre attività è che il potere professionale emana da una fonte diversa.

Un sindacato, una corporazione, una banda impongono il rispetto dei propri diritti e interessi con lo sciopero, il ricatto o l’aperta violenza.

Una professione invece, al pari di un clero, ha potere per concessione di una élite di cui puntella gli interessi.

Come un clero assicura la salvezza a chi si mette al seguito del re unto, così una professione interpreta, tutela e garantisce uno speciale interesse terreno ai seguaci dei moderni sovrani.

Il potere professionale è una forma specializzata del privilegio di prescrivere ciò che è giusto per i terzi e di cui essi hanno perciò bisogno.

E’ la fonte del prestigio e del controllo nel quadro dello Stato industriale.

Ovviamente questo tipo di potere poteva nascere soltanto in società dove la stessa appartenenza all’élite è legittimata, se non acquisita, dalla condizione professionale: una società dove alle élites governanti si attribuisce un’obiettività unica nel suo genere, quella di definire il rango morale di una carenza.

Esso è perfettamente congruo con un’epoca nella quale persino l’accesso al parlamento, ossia alla camera della gente comune, è riservato di fatto a coloro che possiedono un titolo di studio adeguato, ottenuto accumulando capitali di sapere in qualche istituto d’istruzione superiore.

L’autonomia professionale e la licenza di stabilire i bisogni di una società sono le logiche forme che l’oligarchia assume in una cultura politica dove all’attestato di censo si sono sostituiti i certificati di patrimonio di sapere rilasciati dalle scuole.

Il potere che le professioni conferiscono all’opera dei loro membri è dunque distinto sia per portata sia per origine.

Verso la tirannia delle professioni.

Da qualche tempo, inoltre, il potere professionale ha avuto un tale incremento che ormai il medesimo nome sta a indicare due realtà completamente diverse.

L’odierno biocrate, per esempio, esercita e sperimenta al riparo di qualunque analisi critica indossando i panni del vecchio medico di famiglia.

Il medico girovago divenne il dottore in medicina quando lasciò allo speziale il commercio dei farmaci tenendo per sé il potere di prescriverli.

In quel momento, unendo tre ruoli in un’unica persona, acquisì una nuova, triplice forma di autorità: l’autorità sapienziale di chi consiglia, insegna e guida; l’autorità morale, che rende non soltanto utile ma doverosa l’accettazione della sua sapienza; e l’autorità carismatica, che consente al medico di invocare un interesse supremo dei suoi clienti, più importante non solo della coscienza, ma a volte persino della ragion di Stato.

Questo genere di medico esiste ancora, ma nel sistema sanitario moderno è ormai un a sopravvivenza del passato.

Molto più frequente, oggi, è un nuovo tipo di tecnico della salute.

Costui si occupa sempre più di ‘casi’ anziché di persone; s’interessa del dettaglio che può scorgere nel caso più che del disturbo dell’individuo; tutela l’interesse della società più che quello della persona.

Le tre forme di autorità che, nell’era liberale, il singolo medico aveva riunito in sé nella cura del paziente, sono ora rivendicate dalla corporazione professionale in nome e al servizio dello Stato.

L’ente medico si attribuisce ormai una missione sociale.

Da professione liberale che era, nell’ultimo quarto di secolo la medicina è divenuta una professione dominante conquistando il potere di stabilire quello che è un bisogno sanitario della generalità degli uomini.

Gli specialisti della salute hanno oggi, come corporazione, l’autorità di decidere quali cure debbano essere dispensate alla collettività.

Non è più il singolo professionista che imputa un ‘bisogno’ al singolo cliente, ma un corpo costituito che imputa un bisogno a intere categorie di persone e che rivendica quindi il mandato di sottoporre a esami tutta quanta la popolazione per individuare tutti coloro che appartengono al gruppo dei suoi potenziali pazienti.

E ciò che accade nel campo della salute corrisponde esattamente a quanto avviene in altri settori.

Nuovi sapienti continuano a emulare il fornitore di assistenza terapeutica.

Gli educatori, gli assistenti sociali, i militari, gli urbanisti, i giudici, i poliziotti e altri dello stesso stampo ce l’hanno evidentemente già fatta: godono infatti di ampia autonomia nella creazione degli strumenti diagnostici con i qual i catturare poi la clientela da curare.

Decine di altri creatori di bisogni si provano anche loro: banchieri internazionali ‘diagnosticano’ i mali di un paese africano e lo inducono poi ad ingoiare la medicina prescritta, anche a rischio della vita del ‘paziente’; specialisti del la sicurezza valutano il grado di rischio del lealismo del cittadino e finiscono col distruggere la sua sfera privata; persino gli accalappiacani si spacciano per specialisti della prevenzione contro gli animali nocivi e si arrogano il diritto di vita e di morte sui cani randagi.

Il solo modo di arrestare l'”escalation” dei bisogni è una denuncia radicale, politica, delle illusioni che legittimano il dominio delle professioni.

Parecchie professioni si sono talmente consolidate che non solo tengono sotto tu tela il cittadino divenuto cliente, ma determinano la forma del suo mondo, divenuto un ospedale.

La lingua nella quale egli si esprime, il suo modo di concepire i diritti e le libertà, la sua coscienza dei bisogni recano tutti l’impronta dell’egemonia delle professioni.

La differenza tra l’artigiano, il membro d’una professione liberale e il nuovo tecnocrate risulta chiara mettendo a confronto le tipiche reazioni suscitate dalla decisione di non attenersi ai rispettivi pareri.

Se non seguivi il consiglio dell’artigiano, eri uno stupido.

Se non ascoltavi il parere del libero professionista, incorrevi nella riprovazione della società.

Oggi, invece, è alla professione o all’autorità pubblica che si darà colpa se tu ti sottrai alle cure che hanno deciso di dispensarti il legale, l’insegnante, il chirurgo o lo psicanalista.

Con la scusa di soddisfare i bisogni in maniera migliore e più equa, il professionista dei servizi si è tramutato in un filantropo militante.

Il dietologo prescrive la ‘giusta’ formula per il neonato, lo psichiatra il ‘giusto’ antidepressivo, e il maestro di scuola (oggi investito dei più ampi poteri dell”educatore’) si sente autorizzato a frapporre il suo metodo fra te e qualunque cosa tu abbia voglia d’imparare.

Ogni nuova specialità nella produzione dei servizi si afferma nel momento in cui i l pubblico adotta, e la legge avalla, una nuova concezione di ‘ciò che non dovrebbe esistere.

L’istituzione scolastica si è sviluppata nel corso di una crociata moralistica contro l’analfabetismo, una volta che l’analfabetismo era stato definito un male.

Le cliniche di maternità si sono moltiplicate per porre fine ai parti in casa, ritenuti perniciosi.

I professionisti rivendicano il monopolio della definizione della devianza e dei  rimedi necessari.

Gli avvocati, per esempio (gli esempi che porto possono valere in misura diversa nei diversi paesi: ma la tendenza di fondo è dappertutto uguale), affermano di essere i soli ad avere la competenza e il diritto legale di assistere chi vuole divorziare.

Se escogiti un sistema per divorziare senza assistenza, ti cacci in un guaio: se non sei avvocato, puoi essere chiamato a rispondere di esercizio abusivo della professione; se lo sei, rischi la radiazione dall’ordine per comportamento antiprofessionale.

I professionisti vantano inoltre una scienza segreta circa la natura umana e le sue debolezze, scienza che soltanto a loro spetta di applicare.

I becchini, per esempio, negli Stati Uniti, hanno posto in essere una professione non perché ora si chiamino impresari di pompe funebri, o perché è richiesto un diploma per esercitare la loro attività, o perché le loro prestazioni sono diventate molto care, e neppure perché si sono sbarazzati dell’odore appiccicato al loro mestiere facendo eleggere uno di loro presidente del Lion’s Club: costituiscono una professione, dominante e menomante, dal momento in cui hanno acquistato il potere di far bloccare dalla polizia un funerale se il morto non è stato imbalsamato e chi uso nella bara da loro.

In qualunque campo si possa immaginare un bisogno umano, le nuove professioni menomanti si erigono a tutori esclusivi del bene pubblico.

Le professioni come nuovo clero.

La trasformazione di una professione liberale in professione dominante equivale all’istituzione di una chiesa ufficiale di Stato.

I medici tramutati in biocrati, gli insegnanti divenuti gnoseocrati, gli impresa ri di pompe funebri assurti a tanatocrati sono assai più simili a ordini ecclesiastici mantenuti dallo Stato che a corporazioni di mestiere.

Il professionista, in quanto maestro che insegna ciò che è conforme all’ortodossia scientifica del momento, rappresenta un teologo.

In quanto imprenditore morale, fa la stessa parte del prete: crea il bisogno del la propria mediazione.

In quanto soccorritore militante, svolge il ruolo del missionario e bracca il diseredato.

In quanto inquisitore, mette fuori legge l’eretico: impone la propria soluzione al recalcitrante che non vuole ammettere di essere un problema.

Questa molteplice investitura che si accompagna al compito di alleviare uno specifico inconveniente della condizione umana fa di ogni professione qualcosa di analogo a un culto ufficiale.

Perciò l’accettazione pubblica delle professioni dominanti costituisce un fatto essenzialmente politico.

La nuova professione crea una nuova gerarchia, nuovi clienti e nuovi esclusi, come pure una nuova pressione sul bilancio.

Ma oltre a ciò, ad ogni nuovo riconoscimento d’una legittimità professionale le funzioni politiche di legiferare, giudicare e governare perdono qualcosa del loro specifico carattere e della loro indipendenza.

La gestione della cosa pubblica passa dagli uguali eletti dal profano alle mani di un’élite autoinvestitasi del proprio mandato.

Quando la medicina, or non è molto, ha esorbitato dai suoi limiti liberali, ha invaso il campo legislativo stabilendo delle norme di diritto pubblico, che hanno efficacia obbligatoria “erga omnes”.

I medici avevano sempre definito che cosa fosse da considerare malattia; oggigiorno la medicina dominante decide quali malattie la società non deve tollerare.

La medicina ha invaso i palazzi di giustizia.

I medici avevano sempre accertato chi era malato; la medicina dominante invece marchia coloro che devono essere sottoposti a trattamento.

I medici dell’età liberale prescrivevano una cura; la medicina dominante possiede poteri pubblici di correzione: decide che cosa bisogna fare dei malati o ai malati.

In una democrazia deve derivare dai cittadini il potere di fare le leggi, di attuarle e di amministrare la giustizia; con l’ascesa delle professioni costituite in chiese, questo controllo dei cittadini sui poteri fondamentali è venuto a restringersi, a indebolirsi, e in certi casi a cadere del tutto.

Il governo esercitato da un’assemblea che basi le proprie deliberazioni sui giudizi pronunciati da tali professioni può essere un governo per il popolo, ma mai del popolo.

Non stiamo qui ad indagare con quali propositi si è arrivati a questo indebolimento della supremazia politica; basterà rilevare come una condizione necessaria di tale sovvertimento stia proprio nella squalifica dell’opinione dei profani ad opera dei corpi professionali.

Le libertà civiche riposano sul principio che esclude il ‘sentito dire’ dal novero delle prove sulle quali si basano le decisioni pubbliche.

Fondamento comune di tutte le norme vincolanti è ciò che ognuno può vedere con i propri occhi e interpretare con la propria testa.

Le opinioni, le credenze, le deduzioni o convincimenti non debbono prevalere sulla testimonianza oculare, mai.

Le élites degli specilisti sono riuscite a diventare professioni dominanti solo perché questo principio è stato a poco a poco intaccato e infine ribaltato.

Oggi, nei parlamenti come nei tribunali, la regola che vieta le dimostrazioni per sentito dire è di fatto sospesa, non applicandosi alle opinioni espresse dai membri di queste élites che si accreditano da se stesse.

Si badi però a non confondere l’utlizzazione pubblica di un concreto sapere specialistico con quello che è invece l’esercizio di un giudizio normativo da parte di un corpo costituito.

Quando un artigiano, per esempio un armaiolo, veniva chiamato in tribunale come perito per mettere i giudici a parte dei segreti del suo mestiere, procedeva sotto i loro occhi a una dimostrazione pratica: faceva vedere loro che quel certo proiettile era stato sparato da quella determinata pistola.

Oggi la maggioranza degli esperti svolge un ruolo diverso.

Il professionista dominante presenta ai giudici o ai parlamentari non una prova concreta o una dimostrazione specialistica, ma un’opinione iniziatica sua e dei suoi colleghi.

Impone la sospensione della norma che vieta di basarsi sul sentito dire, e inevitabilmente scalza la sovranità del diritto.

Il potere democratico ne è così ineluttabilmente sminuito.

L’egemonia dei bisogni attribuiti.

Le professioni non sarebbero mai diventate dominanti e menomanti se la gente non fosse stata pronta a sentire come una carenza ciò che l’esperto le attribuiva come ‘bisogno’.

Il rapporto di dipendenza reciproca che lega l’uno all’altra, come tutore a pupillo, non si riesce ormai più a scorgere perché oscurato dalla corruzione della lingua.

Certe buone vecchie parole si sono trasformate in etichette, che indicano a quali specialisti compete la tutela sulla casa, sulla bottega, sul negozio e sullo spazio o sull’aria che li separa.

La lingua, il più fondamentale dei beni comuni, è contaminata da contorti fili gergali, ognuno manovrato da una professione.

L’espropriazione delle parole, l’impoverimento del lessico quotidiano e la sua degradazione a terminologia burocratica corrispondono, in modo ancor più intimamente avvilente, a quella particolare forma di degradazione ambientale che toglie agli uomini la capacità di sentirsi utili se non hanno un impiego retribuito.

Finché non si presterà maggiore attenzione ai pervertimenti di vocabolario dietro cui si nasconde il dominio delle professioni, è quasi inutile proporre riforme di legge, di comportamenti e di modelli intese a restringere tale dominio.

Quando io ho imparato a parlare, non esistevano altri ‘problemi’ fuorché quelli di matematica o di scacchi; le ‘soluzioni’ erano saline o legali, e ‘bisogno’ era per lo più usato in forma verbale.

Espressioni come ho un problema oppure ho un bisogno suonavano alquanto bislacche.

Quand’ero adolescente, e mentre Hitler elaborava ‘soluzioni’, si diffusero anche i ‘problemi sociali’.

Varietà sempre nuove di ‘bambini con problemi’ venivano scoperte tra i poveri man mano che gli assistenti sociali imparavano a marchiare le loro prede e a standardizzarne i ‘bisogni’.

Il bisogno, inteso come sostantivo, fu la biada che fece espandere le professioni fino a instaurarne il dominio.

La povertà si venne modernizzando.

Da esperienza, i manager la tradussero in misura.

I poveri divennero i ‘bisognosi’.

Durante la seconda metà della mia vita, l’essere ‘bisognosi’ acquisì rispettabilità.

I bisogni calcolabili e imputabili salirono di grado nella scala sociale. ‘Aver bisogno’ cessò di essere un segno di povertà.

Il reddito originò nuove categorie di bisogni.

I pedocrati alla dottor Spock, i sessuocrati alla Lewis Comfort e i volgarizzatori di Ralph Nader che col pretesto di tutelare i consumatori stimolano il consumo, addestrarono i profani a procacciarsi soluzioni per i problemi che imparavano a inventarsi seguendo le istruzioni professionali.

Le università abilitarono i laureati a scalare vette sempre più aeree per piantarvi e coltivarvi sempre più nuove specie di bisogni ibridati.

Aumentarono le prescrizioni e si ridussero le capacità.

In medicina, per esempio, vennero prescritti prodotti farmacologicamente sempre più attivi, mentre la gente perdeva la voglia e la capacità di affrontare un’indisposizione o anche un semplice malessere.

Nei supermercati americani, dove si calcola che compaiano annualmente circa 1500 prodotti nuovi, meno del venti per cento di essi sopravvive per più di un anno su gli scaffali, mentre gli altri si rivelano invendibili, legati a mode effimere, rischiosi o non remunerativi, o subito superati da nuovi articoli; ragion per cui i consumatori sono sempre più indotti a cercare la guida dei professionisti della ‘difesa del consumatore’.

Il rapido ricambio dei prodotti, inoltre, rende i desideri vacui e informi.

Sicché, paradossalmente, un forte consumo di massa derivato da bisogni indotti genera nel consumatore una crescente indifferenza al desiderio specifico, vissuto.

Sempre di più i bisogni sono creati dallo slogan pubblicitario e dagli acquisti fatti su prescrizione del funzionario, dell’estetista, del ginecologo e di decine di altri diagnosti.

Il bisogno di essere istruiti sul modo di aver bisogno (mediante la pubblicità, la prescrizione o la discussione guidata nel collettivo o nella comune) compare in ogni cultura in cui le decisioni e gli atti non sono più la risultante di un’esperienza personale del soddisfacimento, e il consumatore flessibile non può che sostituire i bisogni sentiti con bisogni appresi.

Man mano che si progredisce nell’arte d’imparare a provare bisogni, la capacità di modellare i propri desideri in funzione di una personale ricerca di soddisfazione diventa una prerogativa rara, propria della gente molto ricca o di quella più diseredata.

Poiché d’altra parte i bisogni vengono incessantemente suddivisi in componenti sempre più piccole, ognuna gestita da un apposito specialista, diviene difficile per il consumatore integrare le disparate offerte dei suoi diversi tutori in una totalità che abbia senso, che possa essere desiderata con piena cognizione di causa e ottenuta con piacere.

Dall’alimentazione all’istruzione, dall’armonia coniugale all’inserimento sociale, dalla dietetica alla meditazione, dall’aggiornamento al riciclaggio, consulenti, esperti e altri personaggi del genere sono pronti a cogliere ogni nuova possibilità di gestire la gente e ad offrire i loro prodotti prefabbricati per appagare ogni bisogno parcellizzato.

Usato come sostantivo, ‘bisogno’ è la riproduzione su scala individuale di un modello professionale; è la copia in plastica della matrice nella quale i professionisti fondono i loro prodotti; è la forma pubblicitaria che assume il favo nel quale si generano i consumatori.

Ignorare i propri bisogni o dubitarne è diventato un comportamento sociale inammissibile.

Buon cittadino è colui che attribuisce a se stesso bisogni standardizzati, con tanta convinzione da soffocare ogni altro possibile desiderio e, a maggior ragione, ogni eventuale idea di rinuncia.

Quando sono nato io, prima che Stalin, Hitler e Roosevelt salissero al potere, soltanto i ricchi, gli ipocondriaci e gli appartenenti ad alcune categorie d’élite affermavano d’aver bisogno di assistenza medica quando avevano qualche linea di febbre.

I medici di allora, a questo riguardo, non disponevano di rimedi molto diversi d a quelli delle nonne.

La prima mutazione dei bisogni, in medicina, si ebbe con i sulfamidici e gli antibiotici.

Mentre si potevano ormai stroncare le infezioni in modo semplice ed efficace, i farmaci idonei furono sempre più soggetti a prescrizione medica.

I medici ebbero il monopolio dell’assegnazione del ruolo di malato.

Chi non si sentiva bene doveva andare dal medico a farsi etichettare con il nome di una malattia, che legittimava la sua inclusione nella minoranza dei cosiddetti malati: individui esentati dal lavoro, autorizzati a ricevere assistenza, sottoposti agli ordini del medico e tenuti a guarire per tornare ad essere utili.

Paradossalmente, proprio mentre la tecnica farmacologica, analisi e medicinali, diventava talmente automatica e poco costosa che si sarebbe potuto fare a meno del medico, la società emanava leggi e regolamenti di polizia intesi a limitare il libero uso di quei procedimenti che la scienza aveva semplificato e a riservarli esclusivamente ai professionisti.

La seconda mutazione dei bisogni avvenne quando i malati cessarono di essere una minoranza.

Oggi sono ben pochi coloro che riescono a scansare a lungo la prestazioni mediche.

In Italia come negli Stati Uniti, in Francia o in Belgio, un cittadino su due è sorvegliato contemporaneamente da vari specialisti della salute, che lo curano, lo consigliano o, come minimo, lo tengono sotto osservazione.

L’oggetto di questa assistenza specialistica è il più delle volte uno stato (dei denti, dell’utero, del sistema nervoso, della pressione sanguigna o dell’attività ormonica) di cui il ‘paziente’ non patisce.

Sicché oggi non sono più i pazienti a costituire la minoranza, ma quei devianti che in qualche modo restano fuori da tutte le classi di pazienti.

Compongono tale minoranza i poveri, i contadini, gli immigrati recenti e vari altri che, talvolta di propria volontà, si sottraggono agli obblighi del servizio sanitario.

Ancora una ventina d’anni fa ‘non vedere mai un medico’ era segno di salute normale, che si presumeva buona; oggi una simile condizione di non paziente denota miseria o dissenso.

E’ cambiata persino la figura dell’ipocondriaco.

Il medico degli anni Quaranta definiva con questo termine colui che bussava continuamente alla porta del suo studio, il malato immaginario.

I medici d’oggi invece indicano col medesimo nome la minoranza che li fugge: gli ipocondriaci sono i sani immaginari.

Essere inseriti in un sistema professionale come clienti a vita non è più uno stigma che separa gli individui menomati dalla massa dei cittadini.

Viviamo in una società organizzata in funzione delle maggioranze devianti e dei loro custodi.

Essere attivo cliente di parecchi professionisti ti dà un posto ben definito in quel regno dei consumatori intorno al quale ruota la nostra società.

Trasformandosi da professione liberale consultiva in professione dominante e menomante, la medicina ha così incommensurabilmente accresciuto il numero dei bisognosi.

A questo punto critico, i bisogni attribuiti subiscono una terza mutazione.

Si saldano in quello che gli esperti chiamano un problema multidisciplinare, il quale perciò richiede una soluzione multiprofessionale.

Prima la proliferazione delle merci, ciascuna tendente a diventare una necessità, ha efficacemente addestrato il consumatore a provare bisogni a comando.

Poi la graduale parcellizzazione dei bisogni in spezzoni sempre più piccoli e distinti ha portato il cliente a dipendere dal giudizio dell’esperto per poter miscelare i propri bisogni in un insieme significativo.

Ne offre un buon esempio l’industria dell’automobile.

Dalla fine degli anni Sessanta il numero degli accessori facoltativi reclamizzati come necessari per ‘personalizzare’ una Ford di serie è immensamente cresciuto; ma contrariamente a quel che si aspetterebbe il cliente, questa paccottiglia ‘opzionale’ viene in realtà montata sulla catena di montaggio dello stabilimento di Detroit, e all’acquirente del Montana non resta che scegliere tra i pochi modelli già completi di tutto che vengono spediti a caso: se vuole la decappottabile deve prenderla con i sedili verdi che detesta, mentre se per le sue conquiste non può fare a meno dei sedili in finto leopardo deve adattarsi a una berlina col tetto rigido foderato in stoffa scozzese.

Infine il cliente viene educato ad aver bisogno delle prestazioni di un’intera équipe per poter ricevere un’assistenza soddisfacente’, come dicono i suoi tutori.

E’ ciò che accade quando i servizi professionali si rivolgono individualmente al singolo consumatore, allo scopo di migliorarne lo stato.

Sono tanti ormai coloro che passano l’intera esistenza in un dedalo di terapie che secondo i servizi assistenziali dovrebbero servire a migliorare la loro vita.

Più si sviluppa l’economia dei servizi, meno tempo resta all’individuo per consumare l’assistenza pedagogica, medica, sociale, eccetera.

La scarsità di tempo potrebbe diventare presto il principale ostacolo al consumo dei servizi prescritti dai professionisti e spesso pagati dalla collettività.

E’ una scarsità che comincia a manifestarsi assai presto.

Già nella scuola materna il bambino viene preso in carico da tutto un gruppo di specialisti: l’allergista, il foniatra, il pediatra, lo psicologo dell’infanzia, l’assistente sociale, l’esperto di educazione psicomotoria, la maestra.

Costituendo questa équipe pedocratica, i numerosi e vari professionisti tentano di dividersi quel tempo che è diventato il principale limite all’attribuzione di ulteriori bisogni.

Per l’adulto, il luogo dove si concentra la somministrazione dei servizi è il post o di lavoro: dal direttore del personale a quello della formazione, dallo psicologo al medico all’assistente sociale al produttore di assicurazioni, tutti questi specialisti trovano più redditizio spartirsi di comune accordo il tempo del lavoratore che disputarselo singolarmente.

Un cittadino senza bisogni sarebbe fortemente sospetto.

La gente ha bisogno d’un impiego, si dice, per l’assistenza che garantisce prima ancora che per i soldi.

Sparisce la comunità, sostituita da una nuova placenta composta di tubi che erogano assistenza professionale.

Sottoposta a cure intensive permanenti, la vita si paralizza.

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