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DERBY DI ROMA: QUANDO IL CALCIO DIVENTA ALIBI DI VIOLENZA

ROMA (RIVER FLASH)- “Povero Ponte Milvio”. Queste le parole pronunciate ieri da chi scrive, ritrovatasi spettatrice, suo malgrado, dell’ennesimo episodio di violenza e vandalismo, nell’assistere al fronteggiarsi di una frangia di “tifosi”, se così li vogliamo chiamare, e  forze dell’ordine, proprio lì, tra una sponda e l’altra del Tevere. Il nostro ponte romano, non riesce proprio a riposare. Teatro di gloriose battaglie nei secoli, l’avevano appena liberato dalle catene degli innumerevoli lucchetti quando ieri pomeriggio è stato preso d’assalto da lacrimogeni, fumogeni, bastoni, sassi e bottiglie. Come nel più triste dei documentari sulle guerriglie di strada. Come un triste copione che a fasi alterne si ripropone quando l’idiozia e l’ignoranza la fanno da padroni.

In una città, Roma, che sembra oramai essersi arresa a questa cieca violenza diventata normale amministrazione. “C’è il derby. Stai attenta, si menano”. Quante volte l’avrò sentito dire. Troppe forse.

Otto accoltellati, quattro arrestati, un’ambulanza assaltata, negozianti costretti a chiudere prima del tempo, gente in fuga. Tutti schiavi di un gruppetto di esaltati per cui il derby è solo un pretesto per sfogare la propria rabbia, frustrazione, insoddisfazione. Che sia contro un tifoso avversario, un gruppo di poliziotti o un’ambulanza poco importa.

Li ho visti partire in massa. Appena arrivato il “segnale” sono corsi come soldatini di uno squallidissimo plotone. Alcuni brandendo bottiglie. Tutti a farsi scudo l’uno con l’altro, nella mischia. Si sentono forti e sicuri dietro quei cappucci che li nascondono. Pagliacci vestiti da tifosi che con il tifo non hanno nulla a che vedere. Gente che riesce a sentirsi viva solo in mezzo ad una folla seminando il panico, che sia durante un derby o una manifestazione. Quelle stesse persone che hanno usato come pretesto la tragica morte di un ragazzo, Gabriele Sandri, per mettere a ferro e fuoco un quartiere.

La mentalità violenta non si elimina ma si può arginare. E la soluzione non è quella del giorno dopo di  accusare una tifoseria piuttosto che l’altra, mettendoci in testa che la fede calcistica con questi episodi non c’entra nulla. E fa sorridere il sindaco Alemanno che alla luce dei fatti di ieri ha dichiarato: “Credo che le due squadre debbano fare una riflessione più profonda e forse serve un progetto complessivo per avere un rapporto positivo e costruttivo con il tifo”. Stai a vedere che ora la colpa è della Roma e della Lazio se ieri l’anarchia l’ha fatta da padrona, perché non hanno educato bene i propri tifosi.

Forse Gianni Alemanno dimentica che tra i compiti di un sindaco c’è anche quello di garantire l’incolumità dei liberi cittadini che pagano le tasse, che con il calcio non hanno e non vogliono avere niente a che fare, che dopo una giornata di lavoro vogliono solo tornare a casa senza dover rimanere ostaggio di gruppi di teppistelli, bloccati nel traffico di una città altrettanto paralizzata. Questa è la città che voleva le olimpiadi ma che non sa gestire una partita di calcio. Che dovrebbe usare il pugno di ferro verso i sovversivi e non lasciargli la possibilità di delinquere liberamente per poi nascondersi dietro l’alibi che i tifosi di calcio, si sa, sono violenti. Le partite a porte chiuse non risolvono nulla. La feccia è là fuori e non si spaventa né la si arresta con uno stadio chiuso.

di Flavia Tofone AG RF  9.4.2013

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