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“CORPO E ANIMA” – Recensione

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di Valter Chiappa

(AG.R.F. 01/01/2018)

(riverflash) L’anima ha il colore blu e risiede in un bosco innevato. Il corpo è rosso di sangue che sgorga in stanze oscure. Colori che non riescono a fondersi. Due spiriti predestinati, quelli di Endre (Morcsányi Géza) e Maria (Alexandra Borbély), incapaci di incontrarsi: occhi che si osservano a distanza, corpi fra cui si interpongono distanze orizzontali o che giacciono su piani diversi.

Un uomo e una donna paralizzati. Maria, con un’infanzia presumibilmente difficile da cui non sa staccarsi, è un’anima bambina. Il suo mondo, governato da una memoria autistica, si racchiude in un’algida perfezione dove i millimetri hanno valore e la polvere va rimossa. Vive al buio, si rifugia nell’ombra, il rosso che gira altrove non entra nella sua stanza blu. L’amore che ha dentro non diventa contatto, non si traduce in parola.

Endre, offeso nel corpo, chiuso nella stanza da cui non esce mai, ha relegato le pulsioni alla prospettiva distante e angolata della sua finestra e allo sguardo che inevitabilmente si posa sugli elementi dell’attrazione femminile.

Si incontrano in un luogo simbolico, un macello, dove vita e morte, gelo e sangue convivono. A quei cuori che non sanno parlarsi la regista Ildikò Enyedi costruisce un mondo fatto solo per loro, un bosco incantato che magicamente ricorre nei sogni di entrambi. Li trasforma in cervi, l’animale, che si contrappone alla cieca forza generatrice del toro. Fra la neve, nel freddo il maschio, maestoso, carezza col muso la giovane cerbiatta, cerca cibo per lei.

Finalmente uniti in un mondo onirico, i cuori oscurati che hanno cercato la luce in un raggio di sole ora la trovano negli occhi dell’altro. L’ostacolo da superare sarà riportare quel sogno nel mondo reale, farlo diventare vita. Il viaggio di Maria, forte della testarda determinazione che solo i cuori innamorati sanno avere, è la conquista della corporeità, del contatto, del calore.

Difficile raccontare l’amore e la sua difficoltà in maniera più poetica. Un cinema fatto di dettagli infinitesimi: punte dei piedi che si ritraggono nell’ombra, visi che vanno a bagnarsi nel sole, minuscoli oggetti che dialogano fra loro, rapidi gesti delle mani, briciole rapidamente spazzate via. Un cinema fatto di inquadrature eloquenti più delle parole, dalle distanze perfettamente misurate, in cui ostacoli, opachi o traslucidi, sono collocati a frapporsi tra le figure. Un cinema fatto di cromatismi contrastanti, ma mai esasperati, nel segno di una delicatezza di tocco impareggiabile. Parte di tanta tenerezza è anche il sorriso che la svelata ingenuità di Maria sa destare, utile contrappunto nel filo drammaturgico all’iniziale freddezza. Sacrosanto l’Orso d’oro all’ultimo Festival internazionale del cinema di Berlino.

La mano felicissima di Ildikò Enyedi viene assecondata dalla straordinaria recitazione di Alexandra Borbély e Morcsányi Géza, i due protagonisti. Poche parole a disposizione. La luce che la regista richiede si accende gradatamente sui loro volti, sui sorrisi timidamente accennati, negli sguardi che si illuminano fino a sfavillare.

Perché l’amore diventi carne, sarà necessario spingersi fino alle estreme destinazioni del viaggio: sposare il sangue. Questo il destino dei grandi amori. Ma, giunti alla meta, allora il sonno sarà placido: non c’è più bisogno di sognare.

Voto: 9

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