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“Mank” (Usa 2020) di David Fincher, Mankiewicz sceneggiatore di “Quarto Potere”

di Marino Demata (RiveGauche)

AG.RF 06.01.2021 – Sono un grande ammiratore del cinema di David Fincher, che considero tra le novità più interessanti e importanti degli ultimi 25 anni in questo campo (potrei forse dire “la novità più interessante”). La mia ammirazione discende dal fatto che Fincher è il regista capace di prendere in mano una storia, innamorarsene, e poi scovarne i lati più interessanti e portarli sullo schermo. Anche quando, apparentemente, possano sembrare aspetti secondari. Da Seven a Panic room, da Zodiac a The social network, è sempre capace di “rosicchiare” la sua storia e portarla fino all’osso, fino a quando non c’è più nulla da dire. E, secondo me, in questa funzione vanno lette anche le sue innovazioni tecniche, come lo “shot stabilization”, uno strumento utilizzato da “The social network” in poi, che consente al regista di slargare una singola immagine, per poter meglio visualizzarne i particolari e poterci poi lavorare sopra con correzioni digitali, oppure gli effetti speciali utilizzati, anche in questo caso, per scendere nei particolari.
E’ uscito un ampio articolo/intervista di grande interesse, sul New York Times, di Jack Davison, “David Fincher’s imposible eye”, che fa anche riferimento al suo essere esigente. All’osservazione che egli sia un perfezionista, Fincher risponde: No. La verità è che c’è una bella differenza tra mediocre e accettabile.
In ogni caso la sua “attenzione”, il suo essere comunque così “exact”, sono più che mai presenti in Mank, il film la cui sceneggiatura fu scritta da suo padre e che Fincher ha atteso una intera carriera per poterlo girare. Non a caso sono trascorsi sei anni dal suo film precedente, Gone Girl (2014) e Mank, e questo ci dà l’idea della difficile gestazione nella realizzazione di un progetto che risale a venti anni prima.
Proprio come difficile è stata la gestazione di Quarto potere, il capolavoro di Orson Welles, di cui si occupò, come sceneggiatore, Herman J. Mankiewicz (Gary Oldman). E qui c’è il primo, inevitabile intoppo storico del film. Non si sa bene dove arrivi il lavoro di sceneggiatura di Mankiewicz (ovviamente il Mank del titolo) e dove arrivi invece l’inventiva personale del geniale ventiquattrenne  Orson Welles. È un dato di fatto che Mankiewicz riuscì ad imporre a Welles la presenza del suo nome tra i crediti del film, anche se l’originario contratto prevedeva il contrario. La discussione tra i due sarà una delle scene più drammatiche del film, e i violenti scatti di ira del grande regista offrirono a Mank l’occasione per riempire alcuni buchi presenti nella sceneggiatura. Cioè come dire: dal male nasce il bene. O almeno  l’utile. Alla fine, il premio Oscar per la migliore sceneggiatura fu assegnato ad entrambi. Ma come siano andate effettivamente le cose nessuno lo saprà mai. Il padre di Fincher sposa incondizionatamente la tesi del critico cinematografico Pauline Kael, che, in un suo articolo del 1971, afferma che la sceneggiatura di Citizen Kane è opera  interamente di Mankiewicz. Tesi, peraltro, ampiamente confutata in seguito. Ma questa discussione, ovviamente, non c’entra nulla con la valutazione sul film e non serve neppure a contestualizzarlo. Della sua contestualizzazione si occupa ampiamente Fincher figlio, che arricchisce (in verità con troppo materiale), la storia principale con tutta una serie di sotto-storie che ci danno un’ampia idea di due epoche o momenti ben distinti: il 1930 e anni seguenti con l’America che cerca di galleggiare o di uscire dalla grande depressione, e il 1940, allorché si compie il miracolo dell’uscita de capolavoro di Welles.

Su questo piano esistono, a mio giudizio, due elementi veramente non convincenti nella costruzione che questa volta David Fincher attribuisce al suo film. Il primo e più serio è il seguente: se la storia della nascita di Citizen Kane è il filone principale del film, Fincher si preoccupa molto anche di dare spazio a ciò che accade negli anni 1930 e seguenti, anche per mostrare lo sviluppo e l’evoluzione caratteriale e politica del personaggio interpretato da Gary Oldman. Il problema delle due epoche viene però risolto da Fincher non con un unico flashback, ma con una sorta di spezzatino di continui flashback che non mancano di infastidire e distrarre lo spettatore, che si trova di fronte ad un continuo frazionarsi dello svolgimento del film, col rischio anche di confusione. Tale rischio è stato evidentemente avvertito anche dallo stesso Fincher, che, ad ogni flaschback si preoccupa di inserire la didascalia “FLASHBACK” (come dire: “attenzione”, ora saltiamo agli anni Trenta!”). Un accorgimento, a mia personale memoria, unico nella storia del cinema: primato a mio avviso non molto lusinghiero, se lo spettatore deve essere avvertito di quello che succede, pena inevitabile confusione tra le due sotto-storie del film. Penso che in questa situazione, che si identifica poi con la struttura dell’intera opera, si dovesse fare veramente di meglio.
L’altro punto che lascia molto perplessi è  che alcuni critici, specialmente americani, hanno  parlato di questo film come un omaggio al cinema classico dell’epoca degli studios. Per la verità, a parte i grandi film che sono stati prodotti in tutte le epoche negli studios (assieme anche però ad ignobili porcherie!), da quello che lo stesso Fincher ci fa vedere sugli studios, c’è veramente poco da omaggiare. Con Mayer, uno dei padroni della Metro Goldwyn Mayer che impone, per superare la crisi, il dimezzamento degli stipendi di tutto il personale dello studio (tranne, naturalmente, quello dei direttori e dei capo uffici), promettendo di restituire quel “piccolo sacrificio” in tempi migliori. Nei cosiddetti tempi migliori gli stipendi ritorneranno ai precedenti livelli, ma la restituzione di quanto sottratto ai lavoratori degli studios non avverrà mai più.       E’ una scena agghiacciante ed emblematica questa, con i lavoratori intimoriti e intimiditi, chiamati a dare il loro contributo  per salvare la barca nella quale “ci siamo tutti!!” Con  la totale disapprovazione di Mankiewicz. E che dire dell’uso degli studios e degli attori per interpretare, con un palese “falso ideologico”, le voci della gente comune, in maniera così convincente, come solo gli attori veri sanno fare? Tutto questo per indurre gli ascoltatori della radio a non votare come Governatore della California Sinclair, il democratico-socialista che ha nel suo programma elettorale una più equa distribuzione dei sacrifici e del reddito per superare la grande depressione in modo che essa non sia pagata solo dalle classi deboli. Alla fine, sarà eletto il candidato repubblicano Frank Merriam, con modalità e pressioni che hanno nei falsi telegiornali organizzati dagli attori della MGM l’epicentro dell’imbroglio. A tal proposito, è molto trasparente, da parte di Fincher, la metafora dell’elezione di Trump alla Casa Bianca, con la medesima dubbia provenienza di centinaia di migliaia di voti. Sotto questo aspetto il film risulta fuori tempo massimo, perché, nel frattempo, prima dell’uscita su Netflix, il popolo americano ha dimostrato di saper rimediare ai propri errori, impedendo la rielezione del Presidente per la seconda volta: unico caso in 50 anni!
Alla fine lo sbandierato omaggio al cinema degli studios non riusciamo a trovarlo. Troviamo invece un omaggio al cinema classico, con l’uso del bianco e nero e con la pellicola falsamente usurata e qua e là bruciacchiata per dare l’impressione che sia una pellicola dell’epoca. Su questo siamo in totale disaccordo.
Cos’è questo vezzo di omaggiare il cinema classico facendo in modo che il film di oggi somigli al cinema di un tempo? Ci aveva provato qualche anno prima Steven Soderbergh, con Intrigo a Berlino nel 2006, con risultati abbastanza deludenti: tentativo che certamente oggi non ripeterebbe. Personalmente credo che gli omaggi si facciano attraverso i contenuti e non con la forma del film o con l’imitazione del tipo di pellicola.
C’è da dire che i due “tronconi” del film (anni Trenta e anni Quaranta) riescono a giustificare la loro ragion d’essere nella seconda metà dell’opera, allorchè essa entra finalmente nel vivo, dopo una prima parte, in verità, prolissa ed eccessivamente verbosa. Quando cioè si entra nel vivo da un lato nello scandaloso comportamento della MGM, e dall’altro nella parte finale della stesura della sceneggiatura di Citizen Kane da parte di Mank. Per il quale perfetta è la prova di Gary Oldman (pochi dubbi potevano esserci in proposito, data la grandezza dell’attore). Allorchè, a causa di un incidente stradale si ritrova relegato a letto in una casa isolata, in compagnia della fisioterapista e della segretaria a cui dettare le note della sua sceneggiatura. E non disdegnando di coltivare una delle sue più frequenti abitudini: quella di svuotare le bottiglie di whisky. Una parte interpretata in maniera fantastica, piena di ironia e autorironia. Dopo Oldman, segnaliamo tutta la schiera di eccellenti attori ben assemblata da Fincher e dai suoi collaboratori, in maniera perfetta, in questo caso, e non certo per passare dal mediocre all’accettabile (o viceversa).

 

Fonte:  Rive Gauche – Film e critica

 

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