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EX-ALUNNI DI SCUOLE CATTOLICHE RICORDANO E RACCONTANO

(***) AG.RF 25.08.2022

(riverflash) – La grande scuola cattolica, che in Italia monopolizzava l’istruzione, dal 1980 entrò in crisi. A Roma molte scuole gestite da religiosi chiusero, forse a causa dei moti studenteschi del 1968. Altra caratteristica fu l’unione di scuole femminili e maschili, che in precedenza erano rigidamente separate. Negli istituti riservati ai maschi non c’erano nemmeno professoresse. Una separazione che alle elementari avveniva anche nelle scuole pubbliche, con grembiuli bianchi per le bimbe e azzurri per i maschietti. Gruppi separati anche per i boy scout.

In questo clima di cambiamenti Edoardo Albinati colloca la storia del libro “La Scuola Cattolica”, premio Strega 2022, che non racconta solo il massacro del Circeo compiuto da tre ragazzi della Roma bene ai danni di due ragazze della Montagnola a due passi dall’Eur, ma la storia dell’adolescenza di una generazione.

Il quotidiano La Repubblica ha avuto il felice intuito di pubblicare il racconto nel quale Laura Denoyer racconta la sua avventura scolastica.

(Laura Denoyer) – Nel 1979 iniziai il primo anno di liceo al San Leone. Era il primo anno che la scuola apriva alle ragazze, ma solo dal primo liceo scientifico e dal quarto ginnasio, le altre classi ovviamente rimasero maschili fini al quinto.

Provenivo dal Marymount di via Nomentana, sulla carta una scuola mista, ma di fatto praticamente femminile. Il primo giorno al San Leone la mia amica Chiara ed io eravamo elettrizzate e anche un po’ smarrite: 25 ragazzi e 5 ragazze in classe. Fu subito un improvviso arrivo di inviti a feste e telefonate a casa di ragazzi; ricordo mio padre un po’ preoccupato da queste improvvise amicizie maschili… Ma erano altri anni, non ero smaliziata pur essendo alta e sembrando più grande.

Non ricordo particolari tensioni politiche ormai erano finiti i tempi dei fascisti e dei comunisti liceali in perenne contrasto, almeno per la mia generazione (sono del 1965). Mi ricordo che parcheggiavo il mio adorato boxer Piaggio blu davanti a scuola e ancora ricordo il trauma di quando me lo rubarono. Mi ricordo il preside Fratel Gigi Masio che chiudeva il cancello e io ero sempre l’ultima che entrava trafelata, mi sorrideva, mi sgridava un po’ e mi faceva entrare. La mia non era una classe di soli pariolini o comunque rampolli di famiglie bene del quartiere Trieste o Nomentano. C’erano ragazzi di famiglie non povere, ma di varie estrazioni sociali e anche alcuni ragazzi che erano aiutati economicamente dalla scuola.

Ero smarrita in quegli anni. Ancora mi dovevo integrare in una città che mi piaceva, ma dove ero stata catapultata 4 anni prima a causa del lavoro di mio padre. Arrivavamo da Torino e Roma, splendida, assolata, super sociale, ma anche un po’ superficiale; mi piaceva molto, era seducente, ma in fondo non mi apparteneva. I miei anni di liceo sono stati sereni, ma non particolarmente esaltanti. Cercavo stimoli intellettuali, la mia è una famiglia di persone colte che ha sempre dato importanza alla cultura, ma non particolarmente cattolica, anzi piuttosto laica direi. Mio padre voleva mandarmi alla scuola pubblica, ma i miei amici andavano al San Leone e fui irremovibile. Per un periodo venni travolta da una specie di crisi religiosa, pregavo, andavo in chiesa tutti i giorni, aiutavo gli anziani, aiutavo anche in una scuoletta vicino al San Leone i bimbi disagiati, ma con loro ero negata. Cantavo nel coro della scuola. Sono convinta che in un ambiente diverso, meno statico, immobile, dove i preti più moderni mi apparivano più in crisi di me, avrei forse trovato stimoli e una strada diversa, meno scontata per i miei successivi studi e vita. Ho avuto buoni insegnanti, soprattutto ricordo con affetto e stima il mio professore di storia e filosofia Sgaramella. Ricordo con affetto i miei quattro anni di liceo fidanzata con Francesco, genietto di matematica, il nuoto in piscina e ancora alcuni amici con cui sono rimasta in contatto.

Un episodio in particolare dei miei anni di liceo mi colpì molto: il primo anno ero una ragazzina ingenua e superficiale, mi sentivo fighetta, andavano di moda i camperos, degli stivali che si compravano rigorosamente dal Charro a via del Corso. A scuola andava di moda scrivere il nome o fare un disegno sul lato dello stivale o sul lato del tacco. Molti miei amici più grandi si erano disegnati una svastica e così feci io. Quando arrivai a casa mio padre mi convocò nel suo studio. La cosa prometteva un rimprovero. Mi chiese se sapessi cosa rappresentava quel simbolo, dissi di sì, mi parlò con calma di quale messaggio di orrore portavo addosso e mi vergognai della mia idiozia. Cancellai la svastica e imparai a non omologarmi.

 

(Stefano Celestri) – Anche io, direttore di questa agenzia di stampa, sono un prodotto della scuola cattolica. Quasi un predestinato perché mia madre aveva studiato al Mater Dei e mio padre al Nazareno. A ciò si aggiunga che vicino a casa mia era appena nata Villa Flaminia, da una costola del De Merode. La scuola più bella di Roma, con campo da calcio in erba, campi da tennis. Giocando a pallone ho conosciuto tanti ragazzi. Alla fine delle lezioni volavamo via in moto per essere puntuali alle uscite delle scuole femminili. Le più gettonate Giuliana Falconieri di piazza Euclide e le Ancelle del Sacro Cuore di villa Balestra. Era importante frequentare i posti dove essere invitati alle feste che si tenevano nelle case. Un piccolo episodio di una cena seduti, dove la padrona di casa aveva messo come segnaposti i personaggi Disney e ognuno doveva indovinare dove sedersi. A me toccò il Vagabondo e lo compresi solo perché alla mia compagna di allora toccò Lilly. In effetti cercavo di fare il verso a Mick Jagger, con le scarpe bianche da tennis Superga rigorosamente slacciate sotto lo smoking. Quanto ai camperos non potevo indossarli in classe, dove avevamo la divisa, ma andando in discoteca ne possedevo un paio. A differenza di Laura Denoyer, sul tacco dei miei stivali non c’era la svastica ma al suo posto la A di Anarchia. In quei tempi canticchiavo “Addio Lugano Bella”.

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