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DIEGO MARADONA È RESUSCITATO MILLE VOLTE E ADESSO È DIVENTATO IMMORTALE

AG.RF 26.11.2020

da Buenos Aires ci racconta nei dettagli la storia vera di Diego Maradona il giornalista argentino Sergio Levinsky, un uomo che ha condiviso la carriera di Maradona, seguendo le sue imprese dalle tribune stampa degli stadi di tutto il mondo. Levinsly è autore del libro «Maradona, rebelde con causa», ribelle con i giusti motivi.

(riverflash) – Mentre queste righe cominciano a essere scritte, sicuramente Diego Maradona deve aver dribblato su tutti gli ostacoli che gli sono apparsi nella vita e forse ormai deve aver raggiunto un luogo speciale dove ha cominciato a trovare una pace di cui aveva tanto bisogno ma la terra non era il posto giusto per questo scopo.

Se la storia è stata forgiata in un altro modo, il contrario, in cui è riuscito, nonostante la morte a sessant’anni, a vivere molte vite in una sola e a diventare una delle grandi icone dell’Argentina. Genio e personalità, è in lutto in tutto il mondo e pochi rimangono all’oscuro di ciò che è successo.

Questo giornalista ha avuto l’enorme privilegio di assistere ai suoi grandi momenti, quelli buoni e quelli cattivi. Era allo stadio dell’Azteca nel giorno glorioso della “mano di Dio” e del miglior gol della storia dei Mondiali, contro l’Inghilterra, nel 1986, e nello stesso luogo, appena una settimana dopo, per assistere alla sua consacrazione definitiva contro i tedeschi. Al San Paolo di Napoli, che da oggi porterà il suo nome (che forse riassume tutto l’amore provato per lui), ha potuto assistere alla storica eliminazione degli italiani come padroni di casa, la notte dell'”Siamo Fuori” che gli sarebbe costata cara nella stagione successiva del Calcio. Ma c’era anche, a chi lo dice, qualche metro nell’albergo di Dallas nel 1994, quando con grande tristezza e cercando di non piangere, disse che gli tagliarono le gambe con un doping che non fu mai tale, come fu poi provato, ma che fu crocifisso comunque dalla forza del calcio.

Chi scrive ha anche decine di aneddoti da raccontare sulle sue esperienze con “el diez”, come quando, alla Copa America del 1989 in Brasile, gli dispiaceva dichiarare che voleva la tranquillità di Marsiglia a causa di una grande offerta dell’Olympique Marsiglia di Bernard Tapie, ma che il presidente di Napoli, Corrado Ferlaino, gli disse che se avesse accettato di trasferirsi, lo avrebbero ucciso e il contratto con gli italiani era di sette anni e gliene restavano ancora quattro. In quella stessa Coppa, in sovrappeso, riceveva le canzoni dei tifosi locali al Maracana, mentre giocava contro l’Uruguay, e all’improvviso, per pura magia, vide davanti a sé il portiere Javier Zeoli, che prese un tiro da metà campo e la palla finì per colpire la traversa e fece fermare immediatamente gli stessi spettatori per applaudire. La magia non si può comprare, e nemmeno il talento.
Ma Maradona è stato molto più di un brillante calciatore, uno dei quattro o cinque che possono sedersi sull’Olimpo di tutti i tempi al fianco di Pele, Johan Cruyff, Lionel Messi e Alfredo Di Stefano. Perché ha deciso di farlo in giovanissima età e per quel particolare carattere che ha dato vita a un misto di leader e sfidante, spiritoso e intuitivo, amico o nemico, ma mai tiepido.

Il giornalista autore di questo articolo ha sempre creduto che un fattore determinante nella vita di Diego sia stato l’immenso amore che ha ricevuto fin da bambino, perché sono questi i momenti che determinano molte cose nella vita delle persone. E se era molto povero, anche se in quella povertà degli anni Sessanta che non è la stessa dell’Argentina di oggi, la protezione dei suoi genitori era fondamentale, perché in nessun momento quelle carenze gli hanno mai generato pressioni o difficoltà. Al contrario, suo padre, Don Diego, era sempre con lui, rinunciando a tutto, e per sua madre era una specie di fidanzato, la luce dei suoi occhi.
E quella sicurezza significava che andava sempre ad ogni pallone con un vantaggio, sapendo di essere il migliore, essendo sicuro che tutto dipendeva dai suoi piedi e dal suo talento, e cominciò a farsi strada e a lasciarsi crescere dall’ambiente calcistico al mondo, e denunciò tutto ciò che non gli piaceva, da Bernardo Neustadt in TV agli orari delle partite imposte dalla FIFA in Messico nel 1986 o quando denunciò i sorteggi organizzati in Italia nel 1990, o più tardi, con la politica, mettendo in discussione l’oro del Vaticano, ma anche, tenendo contro ogni pronostico il sistema cubano. Era stato a Cuba e sapeva con i suoi sensi che in quel Paese “non c’erano bambini scalzi per strada”, anche se ciò ha generato alcuni media che giurano odio eterno. La coincidenza, o la coerenza, forse, voleva che morisse lo stesso giorno di Fidel Castro, che ammirava di più, anche se quattro anni dopo.

Nonostante i tanti successi al Napoli e nella nazionale argentina, di cui è stato non solo un campione di calcio ma anche il capitano, con il nastro più che ben messo, il migliore Maradona è stato quello dell’Argentinos Juniors e un po’ (per un anno irregolare a causa di infortuni, anche se ha lasciato le sue tracce al Metropolitano 1981 in un eccezionale duo con Miguel Brindisi) quello della prima tappa al Boca, prima di partire per il calcio europeo. Quelli erano altri tempi e anche qualcuno del suo talento poteva rimanere più a lungo in Argentina, anche se è vero che avrebbe potuto partire prima quando la Juventus aveva organizzato tutto e la dittatura militare non gli permise di emigrare perché faceva parte di una lista di giocatori non trasferibili pensando ai Mondiali di calcio del 1982 in Spagna. Quel Maradona era il puro, il giovane, il ragazzo, senza nulla di pesante nel suo corpo, quello che ha brillato nel campionato mondiale giovanile del 1979 in Giappone che ci ha fatto alzare presto per divertirci con una delle migliori squadre argentine dell’era moderna.

Ma si è scoperto che quel ragazzo che nei primi anni Settanta, nel suo “Sábados Circulares” di Canale 13, disse a Nicolás Mancera che il suo sogno era quello di giocare in prima divisione e vincere il campionato con l’Argentina, era ormai confuso con un sistema che da un lato lo chiamava “Dio”, e dall’altro, senza prepararlo, gli chiedevano di usare le posate giuste per la cena con Mirtha Legrand o di indossare i vestiti giusti per una tale e tale festa, e lui era inorridito da alcune delle sue dichiarazioni, come se dovesse essere preparato al fatto che era un calciatore eccezionale, e quando lui cadde in disgrazia, cominciarono a chiedergli chi pensava di essere, se credeva, forse, che fosse Dio, e chi glielo faceva credere?

È stato giudicato molto superficialmente, senza molta comprensione, perché nessuno può mettersi al suo posto. Nessuno, quando torna a casa, ha un messaggio in segreteria della sorella, del re di Spagna, del chiosco all’angolo, di un funzionario cubano, di un ministro argentino, di Eric Cantona o del Papa. A nessuno viene in mente di andare in Vaticano e farsi baciare la mano dal Papa. Ma tutti credono di avere il diritto di dire la loro sulla loro vita, su ciò che dovrebbero o non dovrebbero fare. Nessuno ha, in una casa per il fine settimana, giornalisti che si arrampicano sull’albero del ligustro, dicendo cosa si mangia a casa, o che una delle loro figlie non vuole mangiare il pollo. Lo hanno anche interrogato fino al suo matrimonio del 1989 a Luna Park.

Non è un caso che oltre ad essere stato campione del mondo e ad essere stato applaudito in tanti stadi del mondo, l’immagine di Maradona appaia in centinaia di migliaia di bandiere, scudi, tatuaggi o foto, o che siano stati scritti più di venti libri su di lui, o film di registi famosi. È anche simbolo di ribellione, della popolarità di quella rara intuizione che l’intelligenza naturale dà, quella che si acquisisce per strada, nell’esperienza ma che nessuna università dà, anche se a Oxford nel 1995 sono rimasti senza parole quando ha fatto qualche dichiarazione o ha giocato con una pallina da golf.

Una volta Fernando Signorini, che lo conosceva come pochi altri, perché era il suo preparatore atletico personale e faceva parte della nazionale argentina di cui Maradona faceva parte, e che trattava con attenzione la sua famiglia, si chiedeva cosa sarebbe potuto essere se non avesse avuto i problemi che aveva: qualcuno che si è preso cura di una famiglia numerosa fin da adolescente, che aveva droga in corpo (e che ha pagato con un sacco di soldi), che è stato sospeso due volte per quindici mesi per giocare il gioco che gioca meglio e che gli piace di più. Ancora di più? Forse, sicuramente, ma qualcuno che è stato in grado di regalare gli unici due scudetti della sua storia al Napoli e una Coppa UEFA, eppure è stato quello che ha diviso le acque del Paese quando nel 1990 ha ricordato agli italiani che non trattano il Sud come connazionali ma che ora cercano incoraggiamento contro la squadra argentina in Coppa del Mondo.

Maradona è stato molto più di uno dei migliori calciatori di tutti i tempi e, nel corso degli anni, la sua intuizione lo ha portato a capire che era diventato una potenza in sé e che la sua parola poteva avere un impatto come forse nessun altro sul pianeta; è diventato un sostenitore di varie cause e ha osato mettere in discussione tutto, incoraggiando allo stesso tempo qualsiasi connazionale in qualsiasi sport, e accompagnandolo se necessario, perché questo è quello che sentiva.

Maradona ha riempito di gloria il suolo argentino, come cantava “Potro” Rodrigo, ed è lui che ha dato una delle poche grandi gioie al popolo argentino, difficilmente paragonabile al ritorno di Juan Domingo Perón o al recupero della democrazia nel 1983, e sicuramente, la sua scomparsa fisica farà sì che la sua figura sia posta in cima alla storia nazionale, anche se trascende il paese ed è diventata un’altra icona mondiale, come il “Che” Guevara, pur con l’enorme popolarità e massività su scala globale che solo il calcio può avere.

È un peccato che se ne sia andato così giovane, quando pochi come lui hanno generato così tanto, dalle sue stesse gambe, per vivere al meglio le conseguenze delle sue azioni. C’è ancora la consolazione di capire che anche lui è riuscito ad andarsene molto prima e che ha avuto la capacità di sopravvivere tante volte, quando era considerato morto, finché, finalmente umano (anche se molte volte non sembrava), ha finito per cedere.

Chi di noi l’ha visto giocare non può che essere grato per l’immensa fortuna di coincidere nel tempo. Quelli di noi che l’hanno avuto vicino hanno potuto godere di esperienze ineguagliabili. Possiamo solo dire grazie, grazie per tanti momenti incomparabili e per la bellezza della sua arte con un pallone.

Ho visto Maradona.

 

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