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“BORG MCENROE” – Recensione

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di Valter Chiappa
(AG.R.F. 13/11/2017)

(riverflash) Janus Metz Pedersen aveva due strade di fronte a sé: percorrere gli oscuri meandri di una delle personalità più controverse del mondo dello sport, quella di Björn Borg, oppure celebrare l’epica battaglia che si svolse sul Campo Centrale dell’All England Lawn Tennis and Croquet Club il 5 luglio 1980, la finale che da gran parte degli amanti del tennis viene ricordata come la più bella partita della storia.

All’inizio di quella fatidica estate Björn Borg (Sverrir Gudnasonk) è il più forte giocatore del mondo, vincitore delle ultime 4 edizioni del Torneo di Wimbledon. Appare invincibile, ma soprattutto è qualcosa di mai visto prima. I tennisti dell’epoca avevano una caratterizzazione precisa: schermidori con la racchetta, artisti e gentiluomini, estrosi sul campo, dove la loro dote principale è il tocco, gaudenti viveur al di fuori, contesi dagli ambienti del jet set e dalle donne più belle. Borg invece è un marziano. Rimane inchiodato alla riga di fondo, ribatte come un muro ogni palla, brandisce la racchetta come una mazza da hockey con cui tirare sassate. Rigoroso e maniacale durante la preparazione, di indole schiva e solitaria nella vita privata, sul campo non manifesta alcuna emozione: è Ice-Borg, l’uomo di ghiaccio.

Scorrendo la sua storia si scopre invece che l’impassibilità è solo la prigione in cui ha rinchiuso la rabbia e l’aggressività che hanno tempestato la sua adolescenza. Con l’aiuto del paterno allenatore Lennart Bergelin (Stellan Skarsgård) ha imparato a canalizzare quelle violente pulsioni nei colpi con cui affonda i suoi avversari. Ma i suoi demoni sono ancora vivi e il più tenace si chiama Sconfitta.

In quella lontana estate l’incubo si materializza in un ragazzo americano riccioluto e ribelle: John McEnroe (Shia LaBeouf). Agitato da un medesimo impeto, oppostamente all’Orso svedese lo yankee non lo nasconde affatto. Lo scarica tutto sul campo con comportamenti che violano le consolidate regole del fair play. Ma al contempo lo traduce in un gioco fatto di rotazioni diaboliche, tagli deliziosi, traiettorie imprevedibili; in una parola, in talento puro.

Ecco quindi cosa fu anche quella mitica partita: il confronto fra due percorsi terapeutici dalla medesima origine e destinazione opposta: da una parte il rigido controllo delle emozioni, dall’altro la loro più libera espressione.

Ed ecco cosa sarebbe potuto essere “Borg McEnroe”, oltre ad un meraviglioso racconto di sport. Janus Metz Pedersen invece rimane a metà strada, senza intraprendere decisamente una direzione o l’altra. Il ritratto psicologico dei due campioni viene affidato alle approssimative pennellate di una aneddotica ritrita e talora poco significativa. Del complesso universo interiore di Borg, vero protagonista del film, rimane solo una semplice enunciazione di comportamenti, senza la sintesi di un’analisi approfondita. Per contro la figura di McEnroe, utilizzata come specchio e descritta con la stessa tecnica, assume addirittura tratti caricaturali. Ma anche la ricostruzione del fatto sportivo, sebbene minuziosa e resa dinamica da un montaggio serrato, non restituisce il pathos che attanagliò chi ebbe la fortuna di assistere a quell’incontro.

Borg McEnroe” rimane quindi un biopic come tanti, magari ben confezionato, attento solo ad una rispondenza esteriore (impressionanti ad esempio le somiglianze di Sverrir Gudnasonk e di Tuva Novotny, che interpreta Mariana Simionescu). Vuole non essere banale, ma non rinuncia a piacere a tutti; ma quali che siano le aspettative dello spettatore, all’uscita della sala ad ognuno mancherà qualcosa.

A Janus Metz Pedersen è mancato il coraggio. Ma senza questo non si può essere campioni.

Voto: 6

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