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“THE PLACE” – RECENSIONE

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di Valter Chiappa
(AG.R.F. 18/11/2017)

(riverflash) Era lecito attendersi che, dopo il clamoroso successo di “Perfetti sconosciuti”, Paolo Genovese percorresse strade già tracciate. Quello che non era prevedibile è che lo facesse in maniera estrema, non riproponendo sic et simpliciter una ricetta già collaudata, ma spingendo alle estreme conseguenze il modo di fare cinema sperimentato con la precedente opera. Ancor meno che avesse il coraggio di abbandonare il registro comico e i temi pruriginosi, che senz’altro avevano contribuito in maniera determinante al risultato ai botteghini della passata stagione, rischiando così di disattendere le attese di un pubblico come sempre famelico di nuove risate.

Con “The Place” Genovese spiazza tutti e propone uno storia drammatica, dagli accenti metafisici e dallo sviluppo originale, riadattando per il grande schermo, in maniera invero pedissequa, la serie televisiva americana “The booth at the end”.

Un uomo misterioso (Valerio Mastandrea) riceve i suoi clienti seduto al tavolo di un locale. Ognuno di loro ha un desiderio, talora futile, talora drammaticamente pressante: chi spera nella guarigione di un caro, chi vuole una donna con cui andare a letto; chi vuole salvare un matrimonio, chi vuole diventare più bella; chi vuole trovare Dio, chi una somma di denaro. L’uomo ha una risposta per tutti. Ma cambiare il destino ha un prezzo: per esaudire i propri sogni, si deve portare a termine un compito, che l’uomo sembra distribuire con beffardo sadismo. Le vicende dei protagonisti impegnati nelle rispettive missioni si intersecheranno a loro insaputa, con conseguenze paradossali ed estreme. Ci siamo capiti: è il mito di Faust riveduto e (nemmeno tanto) corretto.

È evidente che la tecnica costruttiva nelle due ultime opere di Genovese sia rimasta la stessa. Il punto di partenza è una (ed una sola) idea forte, riassumibile in una domanda provocatoria. “Cosa succederebbe se si mettesse completamente a nudo la propria vita privata?” si chiedevano gli spettatori di “Perfetti sconosciuti”; “Cosa si è disposti a fare per realizzare i propri desideri?” è la domanda che implicitamente l’uomo interpretato da Valerio Mastandrea pone ai suoi interlocutori e che Genovese gira al suo pubblico.

Ma anche uno (ed uno solo) è lo strumento utilizzato: una indubbia facilità di scrittura, che si esprime nella capacità di creare intrecci abilmente tessuti, che si ramificano dal germe iniziale fino a formare una rete comunque sempre fluida di complesse connessioni.

Il resto per Genovese è superfluo e nel percorso da “Perfetti sconosciuti” a “The Place” viene ridotto all’osso: lo spazio scenico, prima un appartamento, è minimizzato nel tavolino di un locale; i movimenti della macchina, prima circoscritti all’ambiente chiuso, si fermano, sostituiti da campo e controcampo. Anche la recitazione, ultimo baluardo, viene castrata. Nulla delle vicende dei protagonisti viene mostrato allo spettatore, lo svolgersi dei fatti viene raccontato e all’attore viene lasciato spazio di azione nell’ambito angusto di uno statico close-up.

Il regista mette su, ne ha bisogno, una squadra di campioni, stelle per bravura o notorietà. Ma il rendimento del suo cast, di fronte ad una prova così impegnativa, non è uniforme. Valerio Mastandrea primeggia: con il tipico disincanto dell’espressione, conferisce l’adeguato cinismo all’enigmatico protagonista. Marco Giallini usa invece una mimica esasperata per tratteggiare il suo rude poliziotto, finendo abbondantemente sopra le righe. Alba Rohrwacher è una suora perfetta, soave nell’espressività e flautata nella voce. Rocco Papaleo è inaspettatamente convincente nel suo ruolo surreale. Intenso Vinicio Marchioni, da rivedere l’ormai onnipresente Alessandro Borghi, per una volta chiamato ad agire in punta di pennello. Efficace la luminosa ingenuità dipinta da Silvia D’Amico, evanescente come sempre Vittoria Puccini. Promossa ad honorem una signora dello spettacolo come Giulia Lazzarini, nonostante il manierismo; rimandata a settembre Sabrina Ferilli, che pur sa essere intrigante, per la dizione inevitabilmente trascinata.

Genovese scrivendo, sia pur con una riconoscibile letterarietà, frantuma la struttura filmica ed il suo far cinema giunge paradossalmente ad una negazione dello stesso, ridotto a semplice narrazione. La quale però non vuol nemmeno raccontare, bensì colpire, sorprendere, eventualmente disturbare: il suo fine esclusivo pare essere la ricerca dello stupore. Con la qualità della sua penna ci riesce: se “Perfetti sconosciuti” sapeva solleticare, “The Place” intriga con una malia che perdura anche dopo l’uscita dalla sala.

Ma, come il suo diabolico protagonista, Paolo Genovese esige un prezzo: in cambio del suo successo ci chiede di uccidere il cinema.

Voto: 6.5

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