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“FORTUNATA”: la recensione

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di Valter Chiappa
(AG.R.F. 05/06/2016)

(riverflash) Margaret Mazzantini ha deciso, come tanti altri, di scrivere delle periferie romane. E, immaginiamo, si è seduta nel suo studio, immaginiamo ancora, confortevole. Con la fantasia è volata a Torpignattara (Torpigna per gli amici), zona per vecchia antonomasia malfamata. Peccato che oggi Torpigna sia un quartiere senz’altro popolare e colorito nella sua multietnia, ma ormai inserito nel tessuto urbano della Capitale. La frontiera è più in là, qualche chilometro oltre sulla Casilina, fra i palazzi perduti nel nulla, fra gli sfasci e i campi rom. La collocazione della vicenda dà già misura dei limiti del testo della scrittrice, cui sarebbe bastato, se non un giro in macchina, la visione degli ormai numerosi film (da “Non essere cattivo al recente “Cuori puri”), che hanno scelto come set e come luogo di osservazione i margini anonimi e sfrangiati della Capitale. Margaret Mazzantini decide di scrivere delle periferie, ma lo fa secondo una sua idea intellettuale. Non le vive, non le sente, non le conosce, le sceglie solo luogo di esercizio per la sua penna altolocata. Decide di scrivere dei proletari, ma li rappresenta come li vede, creature letterarie, solo a tratti riconoscibili in personaggi reali.

Ma Margaret Mazzantini ha un’ambizione in più: vuole costruire il personaggio monumento, una donna che si erga come un’eroina contro le sventure del destino. Davanti agli occhi un riferimento dichiarato: Mamma Roma. Ed è qui che le sue pretese diventano blasfeme. Per una differenza sostanziale. Perché se anche l’opera di Pasolini è letteratura (altissima), essa sgorga da una realtà vissuta; per la Mazzantini è la letteratura a dover creare la realtà.

E in quest’ottica elitaria che la scrittrice dà vita ai suoi protagonisti. Al centro ovviamente Fortunata (Jasmine Trinca), parrucchiera a domicilio, dalla bellezza popolana e dal carattere indomito. Ha un ex marito, violento e prevaricatore (Edoardo Pesce), che rientra in casa quando vuole per minacciarla e magari levarsi qualche voglia, ed una figlia (la piccola Nicole Centanni), con un disturbo comportamentale attribuito alla separazione dei genitori.

Fortunata corre affannata da una parte all’altra della città per acconciare spose e festeggiate, inseguendo il sogno di aprire un negozio tutto suo, in società con l’amico d’infanzia (Alessandro Borghi), tatuatore tossico e bipolare, dal nome improbabile come la chioma (Chicano, neanche nei fotoromanzi), il quale vive con la madre (il fantasma di Hanna Schygulla), ex attrice di teatro ottenebrata nelle nebbie dell’Alzheimer. Fortunata si divincola e combatte quotidianamente in questo mondo difficile, difficilissimo, finché incontra inatteso l’amore nello psicologo che ha in osservazione la figlia (Stefano Accorsi). Gli eventi precipiteranno, ma non c’è neanche bisogno di dirlo.

Nel suo divertissement la Mazzantini sceglie il registro di espressione che le sembra più efficace a riprodurre quell’ambiente sociale: il fortissimo. In “Fortunata” tutti urlano, sbraitano, si agitano, gesticolano, si dimenano. Ma soprattutto si percepisce l’artificiosità della sua costruzione, che si traduce in dialoghi esasperati in uno sguaiato dialetto romano, fra citazioni di “Antigone” e massime memorabili (“Il teatro è importante, ma la fregna di più”) ed in scene surreali, fra esplosioni d’ira, sentimenti violenti, quotidiana cattiveria e occasionale follia. Il tutto condito da qualche doveroso richiamo al problema multietnico e da canzoni finalizzate alla ricerca del facile effetto emotivo, sia per il pubblico radical chic (Antony and the Johnsons), che per quello nazional popolare (“Vivere” di Vasco Rossi).

Sergio Castellitto asseconda la scelta stilistica della moglie con una regia nervosa, dinamica, attenta a cogliere il movimento, come quello nervoso delle gambe della protagonista; ma, come la moglie, si lascia andare ad inutili velleità stilistiche, stavolta di stampo sorrentiniano (lo straniante quadro dei cinesi che fanno ginnastica fra i palazzi).

Di tanta artefazione sono gli attori a pagare il prezzo. Jasmine Trinca è perfetta per il suo ruolo: bellezza naturale, lineamenti intagliati, sguardo ardente. La sua interpretazione è eccellente, giustamente premiata a Cannes nella sezione “Un certain regard”: domina lo schermo e si erge statuaria, così come l’autrice vorrebbe, ma grazie alla presenza scenica, non certo per le battute affidategli. Alessandro Borghi, chiamato per l’ennesima volta ad un ruolo border line, riesce ad essere estremamente espressivo, così come Hanna Schygulla, monumento del cinema, regala perle della sua arte. Ma entrambi nulla possono contro i limiti di personaggi grotteschi nella loro letterarietà intesa nel senso più deteriore del termine. Stefano Accorsi, oscillante fra la melliflua gentilezza e l’iraconda passionalità, ci aggiunge del suo, ricadendo nei suoi limiti consueti. Alla fine il più efficace è il meno appariscente: Edoardo Pesce, anche lui relegato alla solita parte di cattivo, viene premiato dal ruolo meno costruito e quindi, purtroppo, più realistico.

Fortunata” è un romanzo popolare, quella scrittura per anime semplici che in essa vorranno vedere letteratura, e come tale probabilmente avrà successo. Ma non è neorealismo, anzi è la sua esatta antitesi. Per parlare della vita della gente comune bisogna scendere in strada e sporcarsi mani e piedi, riempirsi gli occhi e lasciar trascinare la penna dal cuore. Altro che questione di stile.

Voto: 5

 

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