Coppa di Africa dal 13 gennaio
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UN DIVANO SUL PACIFICO: MADAM TUTT’UN’ALTRA STORIA (parte 9)

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Di Giulio Ranzanici (AG RF 13.09.2013)

(riverflash) – Feci la doccia insieme a Guenda, quel mattino. Seguendo l’ordine prescritto dal cerimoniale thai appreso da Patacharee, lavai prima lei e poi me. La cosa mi fece l’effetto di sentirmi mezzo donna e mezzo papà amorevole che si prende cura del bebè. Guenda lasciò fare a occhi chiusi, inerte come una spugna sotto il getto dell’acqua bollente. Poi la asciugai e le lavai i denti con la precisione di un igienista. Lasciai sul bordo del lavabo un bicchier d’acqua e una dose dimezzata di antidepressivi allarmanti come Smarties e andai a vestirmi.

Gherardo doveva aver pensato a lungo a quale tra le auto che si assiepavano nel suo garage fosse la più indicata per il nostro safari nella jungla samuiana, e nessuno poteva dubitare che la scelta fosse la migliore. Mentre uscivamo di casa in fila indiana (nell’ordine: Madam, Guenda, io) il sei cilindri a benzina della sua Mercedes-Benz ML 350 Blue Efficiency, parcheggiata con le ruote sterzate davanti all’ingresso, frusciava in un ronzio da rasoio elettrico, sovrastato dal soffio impetuoso delle ventole del climatizzatore potenziato. Lasciammo fuori il corvino immacolato, lucido e funereo della carrozzeria arroventata e prendemmo posto sui sedili rivestiti di pelle scuoiata da un giovane bovino, tinta di nero e magistralmente ricucita a mano con impunture rosso sangue. (Gherardo ci aspettava in macchina, intento a tamburellare le unghie curatissime sul volante al ritmo strappalacrime e raccapricciante di Just the Way You Are. In uno stentoreo Che musica fantastica, Madam si accomodò al suo fianco, io e Guenda sul divano posteriore.) Il primo brivido di freddo mi artigliò le viscere con il sussulto di un manzo sovrannaturale che, macellato all’aria aperta tropicale, venga trasportato a quarti ancora vivi nella cella frigorifera adiacente.

Chiesi a Gherardo di alzare la temperatura. Madam berciò Neanche per sogno. Come un caporale, lui obbedì senza fiatare.

Guardai Guenda seduta accanto a me. Aveva gli occhi chiusi. La osservai finché il suo profilo prese a investirmi con una familiarità tale da farmi sentire al cospetto di qualcosa che mi apparteneva biologicamente, qualcosa di inoppugnabilmente mio come una mano o la pancia o il fegato. Le feci una carezza sulla guancia con il dorso delle dita. Lei non reagì. Dalle sue cuffie si diffondevano gli acuti corali de Le allettanti promesse di Lucio Battisti – l’ingenuo elogio della vita pura, agreste, spiritualmente incontaminata e fattivamente contadina inscenata tra fienili, pozzi sorgivi, vacche e maiali, contrapposta agli agi, ai veleni chimici e alle crudeli dicerie del borgo, che si concludeva con un provocatorio invito alla non perpetuazione della specie: Potrai un giorno avere anche dei figli./Per poi farli diventar così?/Preferisco allevar vitelli e conigli. Poiché al solito il brano scorreva in loop, l’effetto era quello di vedere i cori femminili in falsetto suggeriti da Mogol ricamare come merletti spumeggianti le onde sonore lacrimevoli e baritonali dei fraseggi di Barry White.

 Con i finestrini bloccati come oblò aeronautici e oscurati come finestre durante il coprifuoco, partimmo alla volta di Nathon. Forse per l’eccitazione di avere Madam al suo fianco, la guida di Gherardo era – non trovo altro aggettivo – telegrafica. Punto, linea, punto, punto, linea, punto. Sincopata e progressivamente più svelta come un certo jazz che non amavo. Incline a accelerazioni subitanee e a frenate improvvise, a reazioni dello sterzo scomposte e violente, e a sorpassi alla cieca seguiti da rientri all’ultimo respiro. Il suv assecondava pesantemente i bistrattamenti infertigli con sussulti e rollii e beccheggi da barca da crociera sculacciata dai venti di monsone. A collo raddrizzato dalle cure tantriche di Gherardo, Madam non faceva che guardarlo come una devota in contemplazione dell’effige di Papa Giovanni.

Facevi il pilota, per caso? gli chiese a un certo punto, titillando nervosamente un orecchio di Arturo accoccolato sul bracciolo in mezzo a loro come una sfinge tra due divinità spietate e rintronate.

No, ma mi sarebbe piaciuto. Ci so fare, eh?

Sei fantastico.

Ora stavamo attraversando il centro del caseggiato di Menham, lanciati sulla provinciale che lo taglia in due per tutta la lunghezza. Dalle viuzze laterali era un continuo svoltare, un improvviso sbucare di macchine e motorini, e lungo la strada brulicavano pedoni e bicilette in attraversamento. Gherardo guidava con una mano disinvoltamente posata sul clacson. Sotto l’impeto delle continue pressioni del dispositivo acustico (potenziato), la marea umana e meccanizzata del traffico locale si apriva alla stessa velocità con cui al fruscio dei dollari si aprono le cosce di una prostituta di Pattaya. Madam era in visibilio, tutta gridolini di entusiasmo per le manovre più azzardate, intercalati a  interiezioni di disappunto per una bicicletta non speronata o per una famigliola in motorino schivata all’ultimo momento. Fantastico! gridava all’insegna di Gherardo per ogni accelerata supplementare. Ah, soffiava quando il carrarmato mancava quello che ai suoi occhi appariva come un facile bersaglio. Li guardai, il sangue mi ribolliva. Erano vecchi. Erano stupidi.

Rallenta, cazzo, gridai.

Rallenta, cazzo, ripeté Guenda, urlando. La guardai basito. Aveva gli occhi chiusi, ma avrei giurato che un impercettibile sorriso le distendesse gli angoli della bocca. Tanta presenza era il primo effetto del dimezzamento della terapia? O si era invece limitata a ripetere meccanicamente la prima cosa in grado di superare la barriera acustica delle cuffie nonché le algide barricate della depressione? Per rispondere avevo bisogno di ulteriori elementi.

Rallenta, cazzo, gridai di nuovo. Ma Madam s’intromise senza lasciare a Guenda il tempo di reagire e privando me della possibilità di studiarne le reazioni. Sì, al solito Madam si mise in mezzo rovinando tutto.

State zitti, pirla, che me lo distraete, sentenziò. Confortato da quel sostegno umanitario, Gherardo pigiò più a fondo sul pedale del gas.

Un minuto dopo, miracolosamente senza spargimenti di sangue, eravamo fuori del centro abitato e schizzavamo sulla camionabile di cemento che tra buche e avvallamenti galoppa lungo il versante occidentale dell’isola. Per effetto della velocità, la vegetazione ai bordi della strada aveva smarrito le connotazioni specifiche delle singole individualità che la costituivano – soprattutto felci, palme, banani e frangipani – per assumere l’aspetto di un incendio verde bottiglia, le cui fiamme mantenute orizzontali dal vento relativo dell’auto in corsa si allungavano fino a lambire i finestrini. Il loro oscuramento e la formidabile velocità raggiunta (la lancetta indicava centosessanta chilometri l’ora in un tratto rettilineo dove il limite era settanta) conferivano alla macchina l’aspetto cinematografico di un veicolo diplomatico sfuggito a un agguato terroristico, e suscitavano negli ostaggi come me (e Guenda, per quanto potesse esserne consapevole) la sensazione di venire travolti da quell’intrico vicinissimo, boschivo, accelerato, oscuro e minaccioso. Tutti quei rami là fuori, protesi e uncinati come artigli pronti a ghermirci da un momento all’altro, mi davano l’idea di trovarmi prigioniero nei viluppi di una radura stregata. Ero il personaggio di un cartone disneyano, l’eroe vorticante insieme alla sua bella nel turbine di una giostra imbizzarrita allestita nel cuore della jungla.

Alzai lo sguardo oltre la vegetazione. In lontananza la morfologia dei luoghi manteneva, per contrasto, una parvenza d’immobilità: tuttavia le spiagge deserte, vaste, disseccate, omogenee nella loro agonia da stagione calda si muovevano anch’esse, susseguendosi l’un l’altra con la monotonia cadenzata delle ore di noia e dei giorni di convalescenza. Più oltre l’oceano sequestrato dalla bassa marea riluceva flebilmente, appiattito come una distesa di mercurio, su cui la brunitura del finestrino non smetteva di posare un pesante manto plumbeo. Il cielo a sua volta premeva su quei metalli liquefatti accendendoli del suo lucore denso, più chiaro di un paio di punti appena. Un veduta lucroxiana. Un paesaggio di merda.

Poco dopo una pioggia sottile come nevischio prese a spruzzare il parabrezza, attivando automaticamente il funzionamento dei tergicristalli. Gherardo non dava segno di rallentare, nemmeno quando la pioggerella si trasformò in acquazzone monsonico (del tutto fuori stagione). Superammo i radi, minuscoli edifici di legno di Bang Por, e dopo un curvone affrontato a centotrenta chilometri l’ora – trent’anni di sofisticata tecnologia tedesca globalizzata ebbero occasione di fare bella mostra di sé in termini di attivazioni di complessi dispositivi emergenziali anti sbandamento e anti slittamento e sotto forma di una congerie di spie arancioni lampeggianti sul cruscotto –, Gherardo affondò il pedale a fine corsa per prendere lo slancio e percorrere alla massima velocità possibile la ripida salita che ci attendeva dopo una curva cieca posta a sbarramento del rettilineo che stavamo percorrendo.

Non appena superata la curva, la salita non si rivelò propizia, neanche un po’. Nella nostra direzione ci precedevano a passo di lumaca un triciclo a motore e un camion a rimorchio intento a sorpassarlo. Dall’altra parte, scendeva, a velocità che reputai normale una berlina bianca. Il comportamento della Mercedes lanciata su quel torrente d’acqua piovana profondo cinque dita sembrò rispecchiare l’indecisione del suo conducente. A freni tirati al massimo, a ABS Bosch di ultima generazione attivo e sussultante come il becco di un picchio ossessivo, il mostro nero che ci teneva prigionieri puntò prima la berlina bianca, poi lo scarico fumante del camion, infine il triciclo. A meno che alla guida si trovi il genio psicomotorio di un Valentino Rossi giovane e sovversivo, nessuno può violare impunemente le leggi della fisica. Impattammo a una velocità che stimai in settanta/ottanta chilometri l’ora. Due tonnellate di acciaio e lamiere a deformazione variabile e progressiva si abbatterono su una struttura rigida, gracile e leggera che procedeva a venticinque l’ora. L’urto impresse al triciclo l’accelerazione di un dragster a reazione. Il conducente, di cui vidi volar via il cappello, riuscì miracolosamente a tenersi aggrappato al manubrio e a conservare il veicolo in un moto in qualche modo rettilineo. Il triciclo che nel momento dell’impatto si trovava a fianco della coda del camion venne sbalzato in avanti fin quasi a affiancarne la cabina. Poi sbandò – fortunatamente sulla sinistra –, la ruota anteriore imboccò il canale di scolo, e dopo un inutile tentativo di riportarlo in strada, il triciclo si ribaltò afflosciandosi sul fianco. Ci fermammo appena dietro, con le quattro luci di emergenza prontamente accese da Gherardo. Madam sembrava gongolare, almeno fino a quando non si rese conto che Arturo era sparito. Lo ritrovò incastrato nella pedaliera, il muso sanguinante.

Fui il primo a scendere. La pioggia veniva giù battente, tiepida come una doccia di sangue. Il conducente del triciclo si era districato dalle scheletrature contorte e ora le guardava mestamente, curvo sulle ginocchia molli e tremolanti, scuotendo la testa incanutita e coprendosi la faccia con le mani. Sembrava tutto intero. Raccolsi il suo cappello di paglia e glielo porsi. Se lo mise in testa guardandomi con occhi spiritati. Il suo strumento di lavoro era distrutto. La ruota posteriore aveva preso la forma ogivale di un’asola, e ovunque tutt’attorno erano sparsi pezzi di metallo e di plastica, manghi, banane, noci di cocco, dragon fruit, riso bollito, vasi rotti, barattoli, macchie di salse variopinte, sacchetti di cellophane e altra indistinguibile preziosa mercanzia di quella che era stata, probabilmente per una vita, la fonte del sostentamento suo e dei lavoratori che con quel ristorantino traballante raggiungeva sui rispettivi posti di lavoro.

Guarda qui, pirla, guarda qui, delinquente, urlò Madam avvicinandosi. Teneva Arturo tra le mani e lo protendeva in direzione del vecchio con la furia disperata di una madre cui hanno appena ammazzato il figlioletto – il cadaverino sbattuto in faccia agli assassini. Il vecchio scosse la testa, non capiva, come poteva?

Guarda qui cosa mi hai fatto! strillò la Lucrox. Gherardo era al suo fianco e la proteggeva con un ombrello automatico turchese firmato Gucci. La osservava con lo sguardo premuroso dell’uomo maturo e responsabile che ristabilisce gli equilibri, del padre di famiglia che scioglie la tensione con la comprensiva esortazione che sin dai tempi di Clark Gable si esprime in un benevolo Non fare così, cara. C’era qualcosa in quella scena che superava le più sinistre proiezioni della mia immaginazione: uno spirito disumano, un genio malvagio si aggirava. Nemmeno le migliori pagine dei maestri della fantascienza horror, dei Bradbury, dei Lovercraft e degli Asimov avevano saputo asfissiare il mondo con un’aria così mefitica. Kafka c’era riuscito, forse. O Poe.

Ero attonito, senza parole. Guenda era scesa dalla macchina, e con una mano sulla portiera aperta ci guardava in silenzio. Cosa poteva capire, lei?

Arturo non era morto. Al suo sanguinamento, Madam aveva provveduto tamponando la ferita con un fazzoletto di carta che gli era rimasto appiccicato al naso. Ora la benda estemporanea inzuppata di sangue e pioggia gli pendeva sotto il muso sventolando flebilmente.

Che razza d’idiota, pirla pirla pirla! gridava la vecchia guardando la sua vittima con occhi iniettati di fiele. Andiamocene Gherardo prima che mi venga voglia di finirlo a ombrellate! ruggì alla fine.

Gherardo passò l’ombrello a Madam e mise mano al portafoglio. Spulciando le banconote, si avvicinò al vecchio. Mormorò qualcosa in thai, di cui intesi soltanto una parola, aroy. Un aggettivo che si usa per indicare la prelibatezza del cibo. Rinunciai a cercare di comprendere la congruenza del messaggio e mentalmente contai i biglietti da mille bath che, uno a uno, metteva in mano all’uomo. Il quale alla fine parve soddisfatto. Gherardo prese sotto braccio Madam che a due passi da lui lo aspettava fremendo e sdegnosamente s’incamminarono in direzione della macchina avvolti in un lucore turchese. Dalle cuffie di Guenda si levò il motivetto di Singing in the Rain.

 Ci volle tutta la nostra forza – la mia e quella del vecchio – per raddrizzare il triciclo e rimetterlo in carreggiata. Una volta in assetto, fu subito chiaro che con quella ruota posteriore ovalizzata non avrebbe potuto marciare. In un sorriso sdentato l’uomo mi mostrò il suo Samsung Galaxy S II e tamburellando le dita sul touchscreen in standby (scorsi l’immagine ieratica di un Buddha sorridente) mi fece capire che presto qualcuno sarebbe venuto a dargli aiuto. Poi ci mettemmo a raccogliere i rottami e i prodotti alimentari ancora recuperabili. A un certo punto scorsi Gherardo, accucciato di fronte al paraurti, intento nella disamina dei danni. Alla fine si tirò su, scosse la testa, si grattò la nuca e disse qualcosa all’indirizzo di Madam. Poi la macchina li inghiottì nel rutto soffocato delle portiere che sbattevano.

Quando allungai le mani sull’ultimo cocco rimasto intero, le dita di Guenda sfiorarono le mie.

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